Seconda lettera a Timoteo 2:1-26

2  Tu, dunque, figlio mio,+ continua ad attingere forza dall’immeritata bontà che è in Cristo Gesù.  E le cose che hai sentito da me, confermate da molti testimoni,+ affidale a uomini fedeli, che a loro volta siano qualificati per insegnarle ad altri.  Quale eccellente soldato+ di Cristo Gesù, accetta la tua parte di sofferenze.+  Nessuno che presta servizio come soldato si immischia negli affari commerciali della vita, se vuole guadagnarsi l’approvazione di chi lo ha arruolato.  Anche nelle gare, nessun atleta riceve la corona a meno che non abbia gareggiato secondo le regole.+  L’agricoltore che lavora duramente dev’essere il primo a godersi i frutti.  Rifletti continuamente su ciò che dico; il Signore ti farà capire ogni cosa.  Ricorda che Gesù Cristo è stato risuscitato dai morti+ ed era della discendenza di Davide,+ come dice la buona notizia che predico,+  per la quale soffro e sono incatenato come un criminale.+ Tuttavia la parola di Dio non è incatenata.+ 10  Per questa ragione continuo a sopportare ogni cosa per gli eletti,+ affinché anche loro ottengano la salvezza che è mediante Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. 11  Questa affermazione è degna di fiducia: se siamo morti con lui, con lui pure vivremo;+ 12  se continuiamo a perseverare, con lui pure regneremo;+ se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;+ 13  se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso. 14  Continua a ricordare loro queste cose, avvertendoli davanti a Dio di non discutere intorno a parole, cosa che non è di nessuna utilità, perché danneggia quelli che ascoltano. 15  Fa’ tutto il possibile per presentarti a Dio come una persona degna di approvazione, un operaio che non abbia nulla di cui vergognarsi, capace di maneggiare correttamente la parola della verità.+ 16  D’altro canto, respingi i discorsi vuoti che violano ciò che è santo,+ perché spingono sempre più nell’empietà;* 17  le parole di coloro che li fanno si diffonderanno come cancrena. Fra loro ci sono Imenèo e Filèto.+ 18  Questi uomini hanno deviato dalla verità, dicendo che la risurrezione è già avvenuta,+ e così sovvertono la fede di alcuni. 19  Tuttavia il solido fondamento di Dio rimane in piedi, avendo questo sigillo: “Geova conosce quelli che gli appartengono”,+ e: “Chiunque invoca il nome di Geova+ rinunci all’ingiustizia”. 20  Ora, in una grande casa non ci sono solo utensili d’oro e d’argento, ma anche di legno e di terracotta, e alcuni sono per un uso onorevole mentre altri per un uso privo di onore. 21  Perciò, chi si mantiene puro da questi ultimi+ sarà uno strumento per un uso onorevole, santificato, utile al suo proprietario, preparato per ogni opera buona. 22  Rifuggi quindi i desideri tipici della giovinezza, ma persegui giustizia, fede, amore, pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro.+ 23  Evita inoltre i dibattiti sciocchi e da ignoranti,+ sapendo che provocano litigi. 24  Infatti lo schiavo del Signore non ha bisogno di litigare, ma deve essere gentile con tutti,+ capace di insegnare, in grado di controllarsi di fronte ai torti,+ 25  esortando con mitezza quelli che si oppongono.+ Forse Dio concederà loro il pentimento che conduce all’accurata conoscenza della verità,+ 26  e loro torneranno in sé e fuggiranno dalla trappola del Diavolo, che li aveva presi vivi perché facessero la sua volontà.+

Note in calce

Cioè irriverenza verso Dio.

Approfondimenti

amato figlio Tra Paolo e Timoteo si era creato un legame particolarmente affettuoso e stretto. Paolo infatti era diventato un padre spirituale per Timoteo (1Co 4:17; Flp 2:22). Nella prima lettera che gli scrisse, lo chiamò “genuino figlio” e “figlio mio” (1Tm 1:2, 18). All’epoca di questa seconda lettera, i due erano stati compagni d’opera per almeno 14 anni. Dal momento che percepiva che la sua morte era imminente, forse Paolo considerava questa lettera il suo ultimo messaggio scritto a Timoteo (2Tm 4:6-8). Per rassicurarlo in merito al proprio affetto, lo chiama “amato figlio”. (Vedi approfondimenti a 1Tm 1:2, 18.)

favore divino O “immeritata bontà”. Il termine greco chàris ricorre più di 150 volte nelle Scritture Greche Cristiane e, a seconda del contesto, può trasmettere diverse sfumature di significato. Quando si riferisce all’immeritata bontà che Dio mostra agli uomini, denota un dono gratuito che Dio fa in modo generoso, senza aspettarsi nulla in cambio. È espressione della sua grande liberalità, nonché della sua bontà e del suo immenso amore. Si tratta di qualcosa di non guadagnato e non meritato da chi riceve, motivato unicamente dalla generosità del donatore (Ro 4:4; 11:6). Il termine non sottolinea necessariamente che chi è oggetto di questa bontà ne sia indegno, motivo per cui anche Gesù può essere oggetto del favore, o bontà, di Dio. In contesti che riguardano Gesù, chàris è appropriatamente reso “favore divino”, come in questo versetto, o “favore” (Lu 2:40, 52). In altri casi ancora, il termine greco è reso “favore” e “generoso dono” (Lu 1:30; At 2:47; 7:46; 1Co 16:3; 2Co 8:19).

in lui abbondavano favore divino e verità “La Parola”, Gesù Cristo, godeva del favore di Dio e diceva sempre la verità. Ma il contesto indica che questa espressione implica molto di più; Geova scelse proprio suo Figlio perché spiegasse e dimostrasse appieno cosa fossero la Sua immeritata bontà e la verità (Gv 1:16, 17). Gesù manifestò in modo così completo queste qualità di Dio che poté dire: “Chi ha visto me ha visto anche il Padre” (Gv 14:9). Gesù fu lo strumento di Dio per estendere l’immeritata bontà e la verità a chiunque le avrebbe accolte favorevolmente.

figlio mio Paolo usa questa espressione per esprimere affetto. (Vedi approfondimento a 2Tm 1:2.)

continua ad attingere forza Paolo invita Timoteo ad attingere forza da Geova Dio, l’inesauribile Fonte di potenza. Usa il verbo greco endynamòo, affine al sostantivo dỳnamis (“potenza”, “forza”), che compare in 2Tm 1:8 nell’espressione “potenza di Dio”. Un commentario fa notare che, per come è usato qui in 2Tm 2:1, il verbo utilizzato da Paolo “indica il bisogno di Timoteo di dipendere costantemente da Dio, come se gli volesse dire: ‘Continua a essere rafforzato’”. Lo stesso verbo compare in Ef 6:10, dove Paolo incoraggia i cristiani di Efeso con queste parole: “Continuate a rafforzarvi nel Signore [Geova Dio] e nella sua possente forza”.

dall’immeritata bontà che è in Cristo Gesù Ricorrendo a questa espressione, Paolo fa capire a Timoteo che “attingere forza” è possibile solo grazie all’“immeritata bontà”. (Vedi Glossario, “immeritata bontà”.) Geova generosamente mostrò a Gesù bontà, o favore, speciale; per questo motivo si può dire che in Gesù “[abbondava] favore divino” (Gv 1:14 e approfondimenti). Gesù, a sua volta, diventò il mezzo attraverso il quale estendere questa bontà a tutti gli esseri umani che avessero dimostrato di apprezzarla. Ecco perché le Scritture ispirate menzionano non solo l’immeritata bontà di Dio, ma anche “l’immeritata bontà del nostro Signore Gesù Cristo” (1Ts 5:28; 2Ts 3:18).

quello che ti è stato affidato Lett. “il deposito”. In questa espressione Paolo include le verità scritturali che erano state affidate a Timoteo (1Ts 2:4; 2Tm 1:14; confronta Ro 3:2 e approfondimento). A volte il termine originale veniva usato per indicare oggetti di valore depositati in banca. Poteva indicare anche beni affidati alle cure di qualcuno, ed è questo il senso con cui compare nella Settanta (Le 6:2, 4 [5:21, 23, LXX]). Dicendo a Timoteo custodisci il sacro messaggio, Paolo non intendeva dire che dovesse rinchiuderlo da qualche parte per tenerlo al sicuro, ma trasmetterlo ad altri con scrupolosità e accuratezza mentre insegnava (2Tm 2:2). Timoteo avrebbe così contribuito a proteggere, o custodire appunto, quelle preziose verità dal rischio di essere modificate o contaminate da coloro che promuovevano “discorsi vuoti” e dalla “falsamente chiamata ‘conoscenza’”.

se siamo qualificati lo dobbiamo a Dio Nel testo originale di questo versetto, a fronte del verbo “essere qualificati” compaiono due termini che alla lettera contengono l’idea di sufficienza e che, se riferiti a persone, le descrivono come capaci, idonee, qualificate (Lu 22:38; At 17:9; 2Co 2:16; 3:6). Quindi la frase “se siamo qualificati lo dobbiamo a Dio” potrebbe essere tradotta: “È Dio che ci ha reso capaci di fare questo lavoro”. Uno dei due termini originali compare nella Settanta nel testo di Eso 4:10, dove si legge che Mosè non si sentiva qualificato per comparire al cospetto del faraone. Secondo il testo ebraico, Mosè disse: “Non sono mai stato un buon parlatore [lett. “un uomo di parole”]”. La Settanta invece traduce “non sono qualificato”. In realtà Geova stesso aveva reso Mosè idoneo per quell’incarico (Eso 4:11, 12). Lo stesso vale per i ministri cristiani, che sono qualificati grazie allo “spirito dell’Iddio vivente” (2Co 3:3).

affidale a uomini fedeli Paolo vuole che Timoteo trasmetta, o affidi, ad altri uomini spiritualmente maturi le preziose verità che ha imparato. Il termine qui reso “affidale” suggerisce l’idea che avrebbe dovuto farlo con attenzione. (Vedi approfondimento a 1Tm 6:20.) Questa direttiva di Paolo è in armonia con il comando di Gesù secondo cui tutti i discepoli devono insegnare ad altri (Mt 28:19, 20). Paolo indica i seguenti passaggi: Gesù aveva insegnato a Paolo; Paolo a sua volta aveva insegnato a Timoteo; Timoteo poi avrebbe affidato questi insegnamenti a uomini fedeli; e questi ultimi li avrebbero insegnati ad altri ancora.

qualificati per insegnarle La parola greca qui resa “qualificato” può significare anche “idoneo” o “adeguato” a svolgere un compito. Scrivendo ai corinti, Paolo usò lo stesso termine per spiegare che Dio rende i cristiani qualificati per l’opera che assegna loro. (Vedi approfondimento a 2Co 3:5.)

eccellente soldato di Cristo Gesù Nei vv. 3-6, Paolo ricorre a tre metafore per spiegare che Timoteo, così come tutti i cristiani, deve essere pronto a far fronte a sofferenze e difficoltà. In questo versetto paragona i cristiani a soldati, immagine che torna più volte nelle sue lettere (1Co 9:7; 2Co 10:3-5; Ef 6:10-17; Flp 2:25; 1Ts 5:8; 1Tm 1:18; Flm 2). Così come un soldato ubbidisce al suo superiore e si aspetta di dover affrontare situazioni difficili, un cristiano ubbidisce ai comandi di Cristo Gesù ed è pronto ad andare incontro a sofferenze, che potrebbero includere odio e persecuzione. Paolo perciò ricorda a Timoteo che, “quale eccellente soldato di Cristo Gesù”, ha bisogno di qualità come determinazione, perseveranza e autodisciplina.

si immischia negli affari commerciali della vita Nessun bravo soldato mentre è in servizio “si immischia” (lett. “si fa coinvolgere”) in attività e affari della vita civile. Gli “affari commerciali [o forse “faccende quotidiane”] della vita” lo distrarrebbero, distogliendo i suoi pensieri e le sue energie dai suoi doveri di soldato. Al contrario, dal momento che è in gioco la sua vita e quella di altri, è necessario che il bravo soldato sia sempre pronto a eseguire gli ordini del suo superiore. Allo stesso modo, Timoteo deve rimanere concentrato sul ministero, rifiutando di farsi distrarre da altri obiettivi (Mt 6:24; 1Gv 2:15-17).

in una corsa tutti corrono Le gare di atletica erano parte integrante della cultura greca; Paolo se ne serve in modo efficace per fare degli esempi (1Co 9:24-27; Flp 3:14; 2Tm 2:5; 4:7, 8; Eb 12:1, 2). I cristiani di Corinto conoscevano bene le gare di atletica dei Giochi Istmici. Questi giochi si tenevano ogni due anni vicino a Corinto ed erano secondi per importanza solo ai Giochi Olimpici, che si tenevano a Olimpia. È probabile che Paolo fosse a Corinto durante i Giochi Istmici del 51. A questi eventi i corridori gareggiavano su diverse distanze. Nei suoi esempi Paolo fa riferimento a corridori e pugili per insegnare il valore della disciplina e della perseveranza, nonché l’importanza di fare sforzi mirati (1Co 9:26).

corsa Il termine “corsa” traduce il greco stàdion (lett. “stadio”), che può indicare la struttura in cui si svolgevano gare podistiche e altri eventi, una misura di lunghezza o la gara stessa. In questo contesto Paolo si riferisce alla gara. La lunghezza dello stàdion greco variava da un posto all’altro; a Corinto era di circa 165 m. La lunghezza di quello romano si aggirava intorno ai 185 m. (Vedi App. B14.)

chiunque partecipa a una gara O “ogni atleta”. Qui in greco compare un verbo che è affine a un sostantivo spesso utilizzato per indicare le gare di atletica. Questo sostantivo è usato in senso figurato in Eb 12:1 con riferimento alla “corsa” cristiana per la vita. È anche usato con il significato più generico di “lotta” (Flp 1:30; Col 2:1) o di “combattimento” (1Tm 6:12; 2Tm 4:7). Lo stesso verbo greco presente qui in 1Co 9:25 è stato reso “fare ogni sforzo”, “lottare”, “prodigarsi”, “sforzarsi” e “combattere” (Lu 13:24; Col 1:29; 4:12; 1Tm 4:10; 6:12). (Vedi approfondimento a Lu 13:24.)

si padroneggia Gli atleti che si preparavano a una gara si sottoponevano a una dura disciplina. Molti seguivano una dieta ferrea, e alcuni non bevevano vino. Lo storico Pausania scrive che gli allenamenti per i Giochi Olimpici duravano 10 mesi, e si presume che la preparazione atletica per altri importanti giochi avesse una durata simile.

esèrcitati Dal v. 7 al v. 10, Paolo porta avanti il suo ragionamento usando vari termini tratti dal mondo dell’atletica. (Vedi approfondimenti a 1Tm 4:8, 10.) Il verbo greco qui reso “esèrcitati” è gymnàzo, che veniva spesso usato in riferimento al rigido allenamento degli atleti che partecipavano a giochi o gare di vario tipo. L’allenamento richiedeva tanta autodisciplina, duro lavoro e molta determinazione. (Vedi approfondimento a 1Co 9:25.) Utilizzando questo verbo in senso metaforico Paolo mette in risalto lo sforzo necessario per coltivare la qualità della devozione a Dio.

esercizio O “allenamento”. Paolo prosegue la metafora tratta dal mondo dell’atletica che ha iniziato nel versetto precedente. Lì ha usato un verbo greco (gymnàzo) che alla lettera significa “esercitarsi (come un atleta)”. (Vedi approfondimento a 1Tm 4:7.) Qui invece usa il sostantivo gymnasìa, che si riferisce all’allenamento fisico. Ai giorni di Paolo, il posto in cui gli atleti si allenavano era chiamato ginnasio (in greco gymnàsion). I ginnasi erano luoghi molto conosciuti perché rappresentavano importanti centri della vita sociale in diverse città dell’impero romano. Influenzati dalla cultura dell’epoca, alcuni davano grande valore all’allenamento fisico. Altri, invece, lo consideravano sconveniente o inutile. Paolo, sotto ispirazione, presenta un punto di vista equilibrato: riconosce che l’allenamento fisico è utile a qualcosa o “è utile per un po’”, perché ha dei vantaggi temporanei, ma mette in evidenza che “[esercitarsi] avendo di mira la devozione a Dio” reca benefìci ancora maggiori (1Tm 4:7).

nelle gare Paolo qui ricorre alla metafora dei giochi atletici per spiegare come dovrebbe vivere un cristiano. Gli atleti dovevano gareggiare secondo le regole. Nei luoghi in cui si disputavano le gare venivano esposte epigrafi con la lista delle regole da rispettare. La corruzione era vietata e i giudici facevano rispettare rigidamente il regolamento. Se un atleta avesse infranto una o più regole, sia durante l’allenamento che durante la gara stessa, sarebbe stato squalificato. In modo analogo, i cristiani devono rispettare scrupolosamente le norme e le regole di condotta stabilite da Dio se vogliono ricevere la sua approvazione. Timoteo doveva “[accettare la sua] parte di sofferenze” senza cercare di attenuarle venendo meno a qualche norma divina (2Tm 2:3; vedi approfondimenti a 1Co 9:24, 25; 1Tm 4:7, 8; vedi anche Galleria multimediale, “Una corona che si deteriora”).

fatichiamo e ci sforziamo Per enfatizzare quello che sta dicendo, Paolo usa due verbi greci che hanno un significato simile. (Confronta Col 1:29.) Il primo, qui reso “fatichiamo”, può riferirsi ad attività stancanti o logoranti (Lu 5:5; 2Tm 2:6). Il secondo, qui reso “ci sforziamo”, può mettere in risalto l’intensità dello sforzo e l’impegno che viene profuso. (Vedi approfondimento a Lu 13:24.)

L’agricoltore che lavora duramente Nella metafora dell’agricoltore, il termine greco reso “che lavora duramente” trasmette il senso di “stancarsi” o “faticare”, e potrebbe suggerire l’idea di lavorare fino a sentirsi esausti. Se voleva ottenere un buon raccolto, un contadino doveva lavorare sodo, a volte anche in condizioni dure. Era così anche per Timoteo: se desiderava ottenere l’approvazione di Dio, doveva essere instancabile e non risparmiarsi (1Co 3:6, 7; Col 1:28, 29; confronta approfondimento a 1Tm 4:10).

Medita O “pondera”. Qui Paolo mette in risalto l’importanza della meditazione. L’espressione queste cose può riferirsi ai consigli di Paolo riportati nei vv. 12-14 sul comportamento di Timoteo, il suo ministero e l’insegnamento che impartiva, oppure alla lettera nel suo insieme. Anche le Scritture Ebraiche sottolineano quanto sia importante che i servitori di Geova riflettano profondamente sulle loro azioni e sulla loro amicizia con lui (Sl 1:2 e nt.; 63:6; 77:12; 143:5). Per esempio in Gsè 1:8, riguardo al “libro della Legge”, Geova dice a Giosuè: “Lo devi leggere sottovoce [o “devi meditare su di esso”, nt.] giorno e notte”. Il verbo ebraico presente in questo versetto suggerisce anche l’idea di leggere a una velocità che permetta di riflettere in modo profondo. Nella Settanta, in Gsè 1:8 compare lo stesso verbo usato da Paolo qui in 1Tm 4:15. Come Giosuè, anche Timoteo doveva continuare a meditare sulle Scritture quotidianamente per non fermare la sua crescita spirituale e per svolgere con maggiore efficacia il suo incarico.

Rifletti continuamente su ciò che dico Il verbo greco qui tradotto “rifletti continuamente” potrebbe anche essere reso “usa discernimento” (Mt 24:15; Mr 13:14). Dopo aver presentato le tre metafore dei vv. 3-6, ora Paolo esorta Timoteo a rifletterci su, così da applicarle nella sua vita. (Confronta approfondimento a 1Tm 4:15.) Paolo inoltre rassicura Timoteo con queste parole: il Signore ti farà capire ogni cosa o, in altri termini, “Geova ti darà il discernimento” necessario. È possibile che Paolo stia richiamando le parole rassicuranti che, con lo stesso tono paterno, compaiono in Pr 2:6.

discendenza di Davide O “discendente di Davide”. Lett. “seme di Davide”. (Vedi App. A2.)

la parola di Dio non è incatenata Nella prima parte di questo versetto Paolo afferma di essere trattato “come un criminale”, utilizzando lo stesso termine usato per gli uomini, o criminali appunto, giustiziati accanto a Gesù (Lu 23:32, 33, 39). Ora però, nella seconda parte, evidenzia un contrasto molto forte: è vero che lui è imprigionato e incatenato, ma non ci sono prigioni o catene che possano arrestare la parola di Dio (2Tm 1:8, 16). Secondo un’opera di consultazione, è come se, riferendosi a coloro che si opponevano alla buona notizia, Paolo stesse dicendo: “Possono fermare il messaggero, ma non il messaggio!”

avrà perseverato Il verbo greco reso “perseverare” (hypomèno) significa letteralmente “rimanere (stare) sotto”. È usato spesso con il senso di “rimanere invece di fuggire”, “tener duro”, “rimanere saldo” (Mt 10:22; Ro 12:12; Eb 10:32; Gc 5:11). In questo contesto ha il senso di mantenere un comportamento cristiano nonostante l’opposizione e le prove (Mt 24:9-12).

fine Vedi approfondimenti a Mt 24:6, 14.

il premio della chiamata celeste Paolo comprendeva che la sua speranza, così come quella dei suoi fratelli unti, era di governare in cielo con Cristo nel Regno messianico (2Tm 2:12; Ri 20:6). La “chiamata celeste” è in pratica un invito a far parte di quel Regno. Comunque coloro che sono “partecipi della chiamata [o “invito”, nt.] celeste” (Eb 3:1, 2) devono “rendere sicura la [loro] chiamata ed elezione” (2Pt 1:10) rimanendo “fedeli” alla chiamata ricevuta (Ri 17:14). Solo allora potranno ricevere “il premio” che è collegato a quell’invito. (Vedi approfondimento a Flp 3:20.)

se continuiamo a perseverare Questa espressione riecheggia la promessa di Gesù: “Chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato”. (Vedi approfondimento a Mt 24:13.) Paolo e il suo caro amico Timoteo nutrivano la gloriosa speranza di regnare con Cristo (Lu 22:28-30). Questo versetto sottolinea quanto sia importante perseverare per poter conseguire quella speranza. Paolo non pensò mai che, dal momento che era un cristiano unto con lo spirito, la sua speranza gli fosse garantita. (Vedi approfondimento a Flp 3:14.) Lui sapeva di alcuni cristiani unti che avevano rinnegato la fede (Flp 3:18). La cosa di cui era certo, comunque, era che lui sarebbe rimasto fedele fino alla morte (2Tm 4:6-8).

sia Dio riconosciuto verace L’esclamazione di Paolo all’inizio di questo versetto, “no di certo!”, è la risposta alla domanda che lui stesso pone nel versetto precedente: “Se alcuni non hanno avuto fede, la loro mancanza di fede annullerà forse la fedeltà di Dio?” La maggioranza degli ebrei di quel tempo dimostrò mancanza di fede, specialmente quando rigettò le profezie delle Scritture Ebraiche che identificavano Gesù quale Messia (Ro 3:21). La presa di posizione degli ebrei in generale — il popolo al quale Dio aveva affidato quelle “sacre dichiarazioni” (Ro 3:2) — poteva dare l’idea che Geova non aveva mantenuto le sue promesse. Geova, invece, aveva adempiuto fedelmente quelle dichiarazioni mediante Cristo. Nell’affermare che Dio è degno di fiducia, Paolo cita dalla Settanta queste parole del re Davide: “Affinché tu [Dio] sia riconosciuto giusto nelle tue parole” (Sl 51:4 [50:6, LXX]). Come si legge in questo versetto, Davide ammise l’errore che aveva commesso, riconoscendo che Dio è giusto e degno di fiducia; non cercò di giustificarsi screditando Dio. Paolo usa le parole di Davide per dimostrare che Dio è sempre leale e degno di fiducia, indipendentemente da chi o da quante persone possano affermare il contrario.

non può rinnegare sé stesso Geova non può agire in un modo che sia contrario alla sua natura, alle sue qualità e alle sue norme (Eso 34:6, 7; Mal 3:6; Tit 1:2; Gc 1:17), né può andare contro il suo proposito. Perciò, indipendentemente da quello che faranno gli altri, Geova realizzerà sempre ciò che ha promesso (Ro 3:3, 4 e approfondimento).

dibattiti intorno a parole L’espressione traduce un unico termine greco (logomachìa) che è composto dal sostantivo lògos (“parola”, “discorso”) e dal verbo màchomai (“battagliare”). Chi “è ossessionato da discussioni” spesso disquisisce su cose futili con il solo scopo di promuovere i propri insegnamenti, e non la gloria di Dio. Tali dibattiti “suscitano invidie, liti”, e possono addirittura portare a calunnie (in greco blasfemìa), ovvero espressioni offensive che diffamano altri. (Vedi approfondimento a Col 3:8.)

ti ordino solennemente Questa espressione dal tono così perentorio traduce un verbo greco che secondo un lessico descrive “un’esortazione data con autorità su una faccenda della massima importanza”. (Lo stesso verbo compare anche nella Settanta, per esempio in 1Sa 8:9 e 2Cr 24:19.) Paolo ha appena spiegato come gestire casi riguardanti un anziano accusato di aver commesso un peccato; ha poi messo in risalto la necessità di riprendere coloro che praticano il peccato. Ora, dato che tali questioni sono così importanti, si rivolge a Timoteo davanti a Dio e a Cristo Gesù, facendo così riflettere sul fatto che quello che accade anche nelle conversazioni private tra uomini nominati è chiaramente visibile alle due massime autorità dell’universo (Ro 2:16; Eb 4:13).

avvertendoli O “avvisandoli solennemente”, “scongiurandoli”. Il verbo greco usato da Paolo potrebbe essere tradotto più alla lettera “rendendo [loro] completa testimonianza” (At 20:24; 28:23). In merito a questo termine, un dizionario biblico spiega: “Significa ‘testimoniare’, ‘mettere in guardia’ in merito a questioni importanti e a situazioni molto pericolose”.

Dio Alcuni autorevoli manoscritti greci qui leggono “Dio”, mentre altri “il Signore”. Qualche traduzione delle Scritture Greche Cristiane in ebraico e in altre lingue ha invece il nome divino. (Vedi App. C1.)

non discutere intorno a parole Paolo mette in guardia i cristiani di Efeso riguardo a una pratica che a quanto pare alcuni falsi maestri promuovevano, e cioè disputare su alcune parole. L’espressione resa “discutere intorno a parole” traduce un unico termine greco (logomachìa) composto dal sostantivo lògos (“parola”, “discorso”) e dal verbo màchomai (“battagliare”). L’espressione non si trova in nessun testo della letteratura antica anteriore agli scritti di Paolo. Paolo usò un sostantivo affine nella sua prima lettera a Timoteo. (Vedi approfondimento a 1Tm 6:4.) Le discussioni da cui mette in guardia Paolo forse vertevano su divergenze di poco conto riguardo al significato delle parole, ma le conseguenze potevano essere dannose o addirittura disastrose.

perché danneggia quelli che ascoltano Il termine originale qui reso “danneggia” è katastrofè (che significa “distruzione”, “rovina” o “catastrofe”); l’espressione perciò potrebbe anche essere resa “perché distrugge (rovina) quelli che ascoltano”. Paolo usa volutamente un linguaggio così forte per far capire il pericolo di “discutere intorno a parole”, e dice a Timoteo di avvertire “davanti a Dio” i cristiani di Efeso di non iniziare nemmeno queste inutili discussioni. (Vedi approfondimento a 1Tm 5:21.)

Fa’ tutto il possibile Il verbo greco usato da Paolo (spoudàzo) potrebbe significare, secondo la definizione di un lessico, “essere zelante o entusiasta, darsi pensiero, adoperarsi, essere premuroso”. Quindi, seguendo questa esortazione e avendo l’approvazione di Dio Timoteo sarebbe stato un bravo operaio. Non avrebbe avuto alcun motivo per cui vergognarsi, anche se gli altri non avessero apprezzato i suoi sforzi o lo avessero osteggiato.

capace di maneggiare correttamente la parola della verità Qui Paolo usa un verbo greco che alla lettera significa “tagliare in linea retta (correttamente)”. Sono state avanzate varie ipotesi su cosa intendesse Paolo con queste parole. Per esempio, essendo fabbricante di tende, potrebbe aver pensato a una stoffa tagliata in modo preciso, diritto. O forse potrebbe aver pensato a come il verbo è usato nella Settanta in Pr 3:6 e 11:5, dove si parla metaforicamente del rendere diritti i propri sentieri, la propria strada. Questo verbo poteva essere utilizzato anche in altri modi, ad esempio per descrivere l’azione con cui il contadino traccia nel terreno un solco diritto. In ogni caso Paolo stava in pratica dicendo a Timoteo di insegnare la Parola di Dio “correttamente”: doveva cioè utilizzarla nel modo giusto, spiegarla accuratamente ed evitare di perdersi dietro a discussioni su parole, punti di vista personali o altre questioni di poco conto (2Tm 2:14, 16).

discorsi vuoti Lett. “suoni vuoti”. Qui Paolo usa un termine greco che indica “conversazioni senza valore”. Alcune Bibbie lo traducono con “vaniloqui”, “chiacchiere”. Questi discorsi si basavano su speculazioni anziché sulle solide verità della Parola di Dio. Erano vuoti in quanto non contribuivano in alcun modo all’edificazione della fede (1Tm 1:6; 2Tm 4:4; Tit 3:9). Peggio ancora, queste chiacchiere futili spesso erano profane o irriverenti; ecco perché Paolo dice: violano ciò che è santo. Chi si impelagava in discorsi del genere sostituiva le verità della Parola di Dio con semplici pensieri umani. Paolo consiglia a Timoteo di non avere niente a che fare con simili discorsi (1Tm 4:7 e approfondimento; 2Tm 2:16).

empietà O “irriverenza”. Le Scritture usano il sostantivo greco asèbeia e termini affini in riferimento alla mancanza di riverenza verso Dio e addirittura a un atteggiamento di sfida nei suoi confronti (Gda 14, 15). È il contrario di eusèbeia, termine tradotto “devozione a Dio”, “religiosità”. Eusèbeia indica la riverenza che manifesta chi serve Dio ed è devoto a lui e alla sua adorazione (At 3:12; 1Tm 2:2; 4:7, 8; 2Tm 3:5, 12).

discorsi vuoti Vedi approfondimento a 1Tm 6:20.

empietà Vedi approfondimento a Ro 1:18.

è ossessionato da discussioni Il verbo greco usato da Paolo significa alla lettera “essere malato”, ma qui ha un valore metaforico. L’intera espressione potrebbe essere resa: “ha un’insana attrazione per le discussioni”. Questa attrazione però è in contrasto con “il sano insegnamento” che viene da Cristo e che Paolo ha appena menzionato. (Vedi approfondimento a 1Tm 6:3.)

dicendo che la risurrezione è già avvenuta A quanto pare a Efeso certi falsi maestri, tra cui Imeneo e Fileto, insegnavano che i cristiani dedicati fossero già stati risuscitati in senso figurato. Alcuni di loro, per promuovere tali ragionamenti errati, potrebbero aver addirittura distorto le parole di Paolo. È vero che Paolo insegnava che quando un peccatore viene battezzato muore rispetto al suo precedente stile di vita e, in senso metaforico, torna a vivere. Ma questa risurrezione simbolica non sostituiva la speranza riportata nella Bibbia di una risurrezione letterale dei morti. Coloro che insegnavano che la risurrezione fosse “già avvenuta”, negando quindi la speranza di una futura risurrezione letterale, erano apostati (Ro 6:2-4, 11; Ef 5:14; vedi approfondimento a Ef 2:1).

che io ho consegnato a Satana A quanto pare questa espressione si riferisce all’espulsione, o disassociazione, di Imeneo e Alessandro dalla congregazione. Il provvedimento si era reso necessario perché questi uomini avevano deliberatamente intrapreso una condotta peccaminosa senza pentirsi. (Vedi approfondimento a 1Co 5:5.)

dalla disciplina imparino Con queste parole Paolo spiega uno degli obiettivi per cui un peccatore che non si pente viene “consegnato a Satana”, o espulso dalla congregazione. (Vedi l’approfondimento che io ho consegnato a Satana in questo versetto.) Imeneo e Alessandro “[avevano fatto] naufragare la loro fede”, ed era stato necessario disassociarli perché potessero imparare “a non bestemmiare”. (Vedi approfondimento a 1Tm 1:19.) Quello che qui Paolo ha in mente, perciò, non è solo una forma di punizione, ma anche di insegnamento; la speranza è quindi, come indica un’opera di consultazione, “che imparino la lezione”.

cancrena Il termine greco gàggraina veniva usato in campo medico per descrivere una malattia che spesso si diffonde rapidamente e che, se non curata, può essere mortale. Paolo lo usa in senso figurato a proposito degli insegnamenti apostati e dei “discorsi vuoti che violano ciò che è santo” (2Tm 2:16-18). Nei suoi scritti ha più volte contrapposto questi insegnamenti spiritualmente deleteri a quell’insegnamento che lui definisce “sano [o “benefico”]” perché basato sulla Parola di Dio (1Tm 1:10; 6:3; 2Tm 1:13; Tit 1:9; 2:1; vedi anche approfondimento a 1Tm 6:4). Con l’espressione “si diffonderanno come cancrena”, Paolo mette in risalto che i discorsi vuoti e i falsi insegnamenti possono circolare velocemente nella congregazione passando da una persona all’altra e possono causare la morte spirituale (1Co 12:12-27).

Fra loro ci sono Imeneo e Fileto Paolo parla di questi due uomini come esempi di apostati, i cui insegnamenti Timoteo doveva respingere. Imeneo e Fileto avevano deviato dalla verità; stavano inoltre danneggiando la fede di altri con le menzogne che insegnavano affermando che la risurrezione fosse già avvenuta. (Vedi approfondimento a 2Tm 2:18.) Quando Paolo aveva scritto a Timoteo la sua prima lettera ispirata, Imeneo aveva già respinto la fede, e a quanto pare era stato disassociato, o scomunicato, così che “dalla disciplina [imparasse] a non bestemmiare”. (Vedi approfondimenti a 1Tm 1:20.) Comunque era passato un anno o più, e lui non era ancora cambiato.

eravate morti a causa delle vostre colpe e dei vostri peccati Nella Bibbia i concetti di vita e morte vengono usati anche in senso figurato, o spirituale. Paolo dice che il precedente modo di vivere dei cristiani di Efeso li aveva resi come “morti a causa delle [loro] colpe e dei [loro] peccati”. Secondo un lessico, in questo versetto l’uso metaforico del termine greco per “morti” descrive la condizione di una persona che è così carente dal punto di vista morale o spirituale da essere praticamente morta. Paolo però dice che per Geova ora quei cristiani unti con lo spirito sono vivi, dal momento che sulla base del sacrificio di Gesù si sono pentiti del loro precedente modo di vivere peccaminoso (Ef 2:5; Col 2:13; vedi approfondimenti a Lu 9:60; Gv 5:24, 25).

a condizione che vi atteniate saldamente a essa A Corinto la risurrezione, uno degli “insegnamenti basilari” del cristianesimo, veniva contestata (Eb 6:1, 2). Alcuni sostenevano che non ci fosse alcuna risurrezione (1Co 15:12). Paolo richiamò l’attenzione su coloro che dicevano: “Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (1Co 15:32). Probabilmente stava citando Isa 22:13, ma le parole che usò rispecchiavano bene il pensiero di chi era influenzato da filosofi greci come Epicuro, che negavano che ci fosse vita dopo la morte (At 17:32; vedi approfondimento a 1Co 15:32). È anche possibile che alcuni componenti della congregazione di retaggio ebraico avessero subìto l’influenza delle dottrine dei sadducei, che negavano la risurrezione (Mr 12:18). Oppure alcuni forse pensavano che i cristiani in vita avessero già avuto qualche sorta di risurrezione spirituale (2Tm 2:16-18). Se i corinti non si fossero attenuti saldamente alla buona notizia, sarebbero diventati credenti inutilmente, ovvero la loro speranza non si sarebbe realizzata. (Vedi approfondimento a 1Co 15:12.)

dicendo che la risurrezione è già avvenuta A quanto pare a Efeso certi falsi maestri, tra cui Imeneo e Fileto, insegnavano che i cristiani dedicati fossero già stati risuscitati in senso figurato. Alcuni di loro, per promuovere tali ragionamenti errati, potrebbero aver addirittura distorto le parole di Paolo. È vero che Paolo insegnava che quando un peccatore viene battezzato muore rispetto al suo precedente stile di vita e, in senso metaforico, torna a vivere. Ma questa risurrezione simbolica non sostituiva la speranza riportata nella Bibbia di una risurrezione letterale dei morti. Coloro che insegnavano che la risurrezione fosse “già avvenuta”, negando quindi la speranza di una futura risurrezione letterale, erano apostati (Ro 6:2-4, 11; Ef 5:14; vedi approfondimento a Ef 2:1).

sovvertono la fede Circa 10 anni prima, Paolo aveva già combattuto contro falsi insegnamenti che minavano la speranza della risurrezione (1Co 15:2 e approfondimento, 12; confronta At 17:32). Quelli che negavano che in futuro ci sarebbe stata una risurrezione alla vita perfetta, in cielo o sulla terra, contraddicevano in modo esplicito le Scritture ispirate (Da 12:13; Lu 23:43; 1Co 15:16-20, 42-44). Se avessero permesso che la loro fede venisse sovvertita da insegnamenti errati riguardo alla risurrezione, i cristiani avrebbero perso la speranza di ricevere in futuro la ricompensa promessa (Gv 5:28, 29).

colonna e sostegno della verità Per descrivere la congregazione dei cristiani unti, e per estensione l’intera congregazione cristiana, Paolo usa in senso figurato due termini architettonici. Ai suoi giorni, le colonne erano elementi strutturali robusti presenti in tanti grandi edifici; spesso servivano a sorreggere pesanti tetti. Paolo poteva avere in mente il tempio di Gerusalemme oppure alcuni imponenti edifici di Efeso, dove Timoteo viveva a quel tempo. (Il termine “colonne” compare anche in Gal 2:9. Vedi approfondimento.) Qui in 1Tm 3:15 Paolo descrive l’intera congregazione cristiana come una simbolica colonna che sostiene la verità. Il termine greco per “sostegno” si riferisce a “ciò che provvede una solida base a qualcosa”. Potrebbe anche essere tradotto “fondamento”, “appoggio” o “terrapieno di supporto”. Paolo usa insieme sia il termine “colonna” che “sostegno” per mettere in evidenza che la congregazione doveva sostenere e difendere le sacre verità della Parola di Dio. Soprattutto a chi è stato affidato l’incarico di sorvegliante nella congregazione è richiesto che sia “capace di maneggiare correttamente la parola della verità” (2Tm 2:15). Per Paolo questa era una questione urgente; voleva che Timoteo facesse tutto quello che poteva per rafforzare la congregazione prima che prendesse piede la grande apostasia.

il suo sigillo Nei tempi biblici il sigillo veniva usato come se fosse una firma per dimostrare possesso o autenticità, oppure per sottoscrivere un accordo. Nel caso dei cristiani unti, Dio ha simbolicamente posto su di loro il suo sigillo attraverso lo spirito santo per indicare che gli appartengono e che hanno la prospettiva di vivere in cielo (Ef 1:13, 14).

avete ricevuto tramite lui un sigillo Nei tempi biblici il sigillo veniva usato come se fosse una firma per dimostrare possesso o autenticità, oppure per sottoscrivere un accordo. Nel caso dei cristiani unti, Dio con lo spirito santo pone simbolicamente su di loro il suo sigillo tramite Cristo per indicare che gli appartengono e che hanno la prospettiva di vivere in cielo. (Vedi approfondimento a 2Co 1:22.)

avete conosciuto Dio Molti dei cristiani della Galazia avevano “conosciuto Dio” grazie al ministero di Paolo. Il verbo greco in questo versetto reso “avete conosciuto” e “siete stati conosciuti” lascia intendere che c’è un buon rapporto fra le persone coinvolte (1Co 8:3; 2Tm 2:19). Quindi conoscere Dio non è solo questione di avere nozioni basilari su di lui. Implica che si coltivi con lui un’amicizia. (Vedi approfondimento a Gv 17:3.)

anzi, ora che siete stati conosciuti da Dio Queste parole di Paolo indicano che per poter conoscere Dio una persona deve anche essere approvata da lui. Secondo un lessico, il verbo greco per “conoscere” ed “essere conosciuto” descrive “un rapporto personale con qualcuno di cui si conosce l’identità o si riconosce il valore”. Per poter essere conosciuti da Dio in questo senso, bisogna far sì che il proprio comportamento sia in armonia con la sua personalità, con le sue indicazioni e con il suo modo di agire.

il solido fondamento di Dio Paolo non specifica a cosa si riferisce parlando di questo “solido fondamento”, ma nelle sue altre lettere usa il termine “fondamento” per evidenziare stabilità e affidabilità. Per esempio paragona il ruolo che Gesù ricopre nel proposito di Dio a un fondamento (1Co 3:11); parla inoltre del “fondamento degli apostoli e dei profeti” (Ef 2:20); descrive in modo simile anche la congregazione cristiana. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:15; vedi anche Eb 6:1.) Nei due versetti precedenti (vv. 17, 18), Paolo ha esortato Timoteo a respingere gli insegnamenti apostati. Ora, per rassicurarlo del fatto che le norme, le attività e le qualità di Geova sono sempre affidabili e valide, afferma che “il solido fondamento di Dio rimane in piedi” (Sl 33:11; Mal 3:6; Gc 1:17).

avendo questo sigillo Il termine sigillo poteva riferirsi o a un marchio che veniva inciso o a un’iscrizione che indicava possesso o autenticità. (Vedi Glossario, “sigillo”.) Non era insolito che le fondamenta o altre parti di un edificio avessero un’iscrizione che ne indicava il costruttore, il proprietario o il motivo per cui era stato costruito. (Confronta approfondimenti a 2Co 1:22; Ef 1:13.) Il libro di Rivelazione parla di pietre di fondamento su cui sono incisi i nomi degli apostoli (Ri 21:14). “Questo sigillo” di cui parla Paolo riporta due affermazioni importanti, che vengono spiegate nei successivi approfondimenti.

Geova Qui Paolo cita Nu 16:5 (dalla Settanta), dove Mosè dice a Cora e ai suoi sostenitori che Geova “conosce quelli che sono suoi”. Nell’originale ebraico è presente il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH); è quindi appropriata la scelta di usare il nome Geova nel testo principale di questa traduzione. (Vedi App. C1 e C2.)

“Geova conosce quelli che gli appartengono” Citando Nu 16:5, a quanto pare Paolo fa riferimento al racconto della ribellione di Cora, Datan e Abiram per garantire a Timoteo che Geova sa bene chi sono quelli che si ribellano contro di lui; inoltre è in grado di contrastare la loro malvagità, ed è quello che farà. Geova non avrebbe permesso agli apostati del I secolo di ostacolare il suo proposito, proprio come secoli prima non lo aveva permesso a Cora e ai suoi accoliti. D’altro canto, come disse Mosè, Geova conosce quelli che gli sono fedeli; li conosce molto bene ed esprime loro la sua approvazione. (Vedi approfondimenti a Gal 4:9.)

“Chiunque invoca il nome di Geova rinunci all’ingiustizia” Lo stile di questa affermazione di Paolo sembra suggerire che si tratti di una citazione, anche se nelle Scritture Ebraiche non c’è una frase che le corrisponda esattamente. Paolo ha appena fatto una citazione da Numeri capitolo 16, che contiene il racconto della ribellione di Cora. È quindi possibile che qui faccia riferimento allo stesso racconto e alluda alle parole di Mosè che si trovano in Nu 16:26. Chi ai giorni di Mosè era leale a Geova doveva agire in modo deciso e separarsi dagli ingiusti. In modo simile, Paolo esorta Timoteo e altri cristiani leali a rinunciare a qualsiasi tipo di ingiustizia, rifiutando anche le cose che Paolo ha menzionato nei versetti precedenti: discussioni “intorno a parole”, “discorsi vuoti”, insegnamenti apostati e “dibattiti sciocchi e da ignoranti” (2Tm 2:14, 16, 18, 23).

invoca il nome di Geova Questa parte della citazione sembra alludere a Isa 26:13 secondo la versione della Settanta. Il testo ebraico originale si riferisce chiaramente al nome divino. (Vedi App. C3 introduzione; 2Tm 2:19b.)

vasi Qui Paolo continua a usare l’esempio del vasaio. (Vedi approfondimento a Ro 9:21.) Il termine greco reso “vaso” (skèuos) si riferisce a recipienti di vario tipo. Spesso, però, viene usato nelle Scritture in senso metaforico per riferirsi a persone (At 9:15, nt.; 2Tm 2:20, 21, ntt.). Per esempio i cristiani sono paragonati a vasi di terracotta a cui è affidato un glorioso tesoro, il ministero (2Co 4:1, 7). Nel contesto (Ro 9:21-23) viene spiegato che Dio si trattiene dal distruggere immediatamente i malvagi, definiti vasi d’ira, per dare alle persone dalla giusta disposizione il tempo di essere modellate come “vasi di misericordia” in modo da essere risparmiate (Ro 9:23).

corpo Lett. “vaso”. Paolo paragona il corpo umano a un vaso. Affinché “sappia padroneggiare il proprio corpo in santità”, una persona deve mettere i suoi pensieri e i suoi desideri in armonia con le sante leggi morali di Dio. Il termine greco per “vaso” è usato in senso figurato anche in At 9:15, nt.; Ro 9:22 e 2Co 4:7.

una grande casa [...] utensili Paolo paragona la congregazione cristiana a “una grande casa” e i suoi componenti a “utensili”, o contenitori di uso domestico. Nelle Scritture il termine greco per “utensili”, o “vasi”, spesso viene usato in modo figurato per riferirsi a persone (At 9:15, nt.; Ro 9:22 e approfondimento; 1Ts 4:4 e approfondimento; 1Pt 3:7). Nei versetti che seguono (vv. 21-26), con questo paragone Paolo esorta Timoteo a evitare forti legami con chiunque all’interno della congregazione si ostini a ignorare i princìpi di Geova.

una grande casa [...] utensili Paolo paragona la congregazione cristiana a “una grande casa” e i suoi componenti a “utensili”, o contenitori di uso domestico. Nelle Scritture il termine greco per “utensili”, o “vasi”, spesso viene usato in modo figurato per riferirsi a persone (At 9:15, nt.; Ro 9:22 e approfondimento; 1Ts 4:4 e approfondimento; 1Pt 3:7). Nei versetti che seguono (vv. 21-26), con questo paragone Paolo esorta Timoteo a evitare forti legami con chiunque all’interno della congregazione si ostini a ignorare i princìpi di Geova.

uno strumento O “un utensile”, “un vaso”. (Vedi approfondimento a 2Tm 2:20.)

Persegui Il verbo originale significa “inseguire”, “correre dietro”. In senso figurato include l’idea di sforzarsi per raggiungere o conseguire un obiettivo. Pur avendo già le qualità di cui parla Paolo, Timoteo doveva continuare a coltivarle e a raffinarle, cosa che avrebbe dovuto fare per tutta la vita. Dicendo anche rifuggi queste cose, Paolo esorta Timoteo a scappare via da ciò che è male, per esempio dalle trappole legate al materialismo (1Tm 6:9, 10). È chiaro che Paolo considera il materialismo un pericolo e le qualità divine un beneficio. Per questo consiglia a Timoteo di rifuggire l’uno e di perseguire le altre (Mt 6:24; 1Co 6:18 e approfondimento; 10:14; 2Tm 2:22).

la tua giovane età O “la tua giovinezza”. Quando furono scritte queste parole, Timoteo doveva essere sulla trentina ed era stato addestrato dall’apostolo Paolo per più di 10 anni. Probabilmente Paolo stesso aveva più o meno quell’età quando viene menzionato per la prima volta nella Bibbia. In At 7:58 Luca definisce Saulo (Paolo) “un giovane”, usando un termine greco affine a quello presente qui in 1Tm 4:12 e tradotto “giovane età”. Inoltre nella Settanta il termine greco reso “giovinezza” o “gioventù” si riferiva a volte ad adulti sposati (Pr 5:18; Mal 2:14, 15; LXX). Nel mondo classico anche uomini sulla trentina in certi casi venivano considerati relativamente giovani e non ancora maturi. È probabile che Timoteo fosse più giovane di alcuni uomini che doveva consigliare o nominare anziani, quindi poteva essere un po’ riluttante a far valere la sua autorità (1Tm 1:3; 4:3-6, 11; 5:1, 19-22). Le parole di Paolo “nessuno disprezzi la tua giovane età” avranno di certo infuso più sicurezza a Timoteo.

Fuggite l’immoralità sessuale! Il verbo greco originale (fèugo) significa “fuggire”, “scappare via”, “evitare”. Paolo lo usa in senso metaforico per ricordare ai cristiani di Corinto di evitare l’immoralità sessuale. Secondo alcuni, Paolo allude all’episodio in cui Giuseppe fuggì letteralmente e in modo risoluto dalla moglie di Potifar. È interessante che in Gen 39:12-18, laddove in italiano si trova il verbo “scappare”, la Settanta abbia lo stesso verbo greco usato qui da Paolo. Nell’originale di 1Co 6:18 il verbo è all’imperativo presente, tempo verbale che in greco suggerisce un’azione continua e ripetuta.

Persegui [...] giustizia La prima delle qualità che Paolo esorta Timoteo a perseguire è la giustizia. (Vedi anche 2Tm 2:22.) Timoteo era già un cristiano dedicato e unto, e in quanto tale era stato dichiarato giusto (Ro 5:1). Doveva comunque continuare a impegnarsi per rimanere giusto, facendo tutto il possibile per seguire le norme di Dio riguardo a ciò che è bene e ciò che è male. (Vedi Glossario, “giustizia, giusto”; vedi anche approfondimento a Ef 6:14.)

invocherà il nome di Geova Invocare il nome di Geova implica molto più che semplicemente conoscere e usare il nome proprio di Dio. L’espressione “invocare il nome di [qualcuno]” affonda le sue radici nelle Scritture Ebraiche. Paolo qui cita Gle 2:32, il cui contesto dà risalto al vero pentimento e alla fiducia nel perdono di Geova (Gle 2:12, 13). Alla Pentecoste del 33, Pietro citò la stessa profezia di Gioele ed esortò chi lo ascoltava a pentirsi e ad agire per ottenere l’approvazione di Geova (At 2:21, 38). Altri passi mostrano che invocare il nome di Dio comporta conoscere Dio, confidare in lui e ricercarne l’aiuto e la guida (Sl 20:7; 99:6; 116:4; 145:18). In alcuni contesti, invocare il nome di Geova può significare dichiarare il suo nome e le sue qualità (Gen 12:8; confronta Eso 34:5, dove la stessa espressione ebraica è resa “dichiarò il nome di Geova”). Nel versetto successivo a Ro 10:13, Paolo mette in relazione l’invocare Dio con il riporre fede in lui (Ro 10:14).

l’amore che scaturisce da un cuore puro In questo versetto Paolo mette in relazione l’altruistico amore cristiano con “un cuore puro”, “una buona coscienza” e “una fede senza ipocrisia”. Il cristiano che ha un cuore puro, cioè che è puro interiormente, lo è dal punto di vista morale e spirituale. I suoi motivi sono puri ed è completamente dedicato a Geova (Mt 5:8 e approfondimento). La purezza del suo cuore lo spinge a mostrare vero amore nei rapporti che ha con gli altri.

Rifuggi [...] persegui Vedi approfondimento a 1Tm 6:11.

desideri tipici della giovinezza Quando ricevette questa lettera, Timoteo era già un uomo adulto, forse sulla trentina. (Vedi approfondimento a 1Tm 4:12.) Tuttavia Paolo qui lo esorta a “[rifuggire] i desideri tipici della giovinezza”, ovvero a coltivare autocontrollo nel combattere i desideri che caratterizzano chi è giovane (Ec 11:9, 10). Questi desideri potrebbero includere gli impulsi sessuali immorali (Pr 7:7-23; vedi approfondimento a 1Co 6:18). L’espressione, però, potrebbe riferirsi anche all’avidità di denaro e potere, ad atteggiamenti competitivi e alla ricerca dei piaceri (Pr 21:17; Lu 12:15; Gal 5:26; 1Tm 6:10; 2Tm 3:4; Eb 13:5).

persegui giustizia Vedi approfondimento a 1Tm 6:11.

quelli che invocano il Signore Paolo incoraggia Timoteo a stare in compagnia di altri cristiani, che qui definisce “quelli che invocano il Signore”. (Vedi approfondimento a Ro 10:13.) Queste persone sarebbero state buone compagnie perché avevano un cuore puro: erano pure moralmente e spiritualmente, dato che erano spinte da motivi sinceri ed erano dedicate in modo completo a Geova. (Vedi approfondimento a 1Tm 1:5.) Avrebbero aiutato Timoteo a “[rifuggire] i desideri tipici della giovinezza” e a coltivare belle qualità.

il Signore Come suggerisce il contesto, a quanto pare “il Signore” si riferisce a Geova Dio (2Tm 2:19). Alcune traduzioni delle Scritture Greche Cristiane in ebraico (definite J7, 8, 17, 22 nell’App. C4) qui usano il nome divino.

non discutere intorno a parole Paolo mette in guardia i cristiani di Efeso riguardo a una pratica che a quanto pare alcuni falsi maestri promuovevano, e cioè disputare su alcune parole. L’espressione resa “discutere intorno a parole” traduce un unico termine greco (logomachìa) composto dal sostantivo lògos (“parola”, “discorso”) e dal verbo màchomai (“battagliare”). L’espressione non si trova in nessun testo della letteratura antica anteriore agli scritti di Paolo. Paolo usò un sostantivo affine nella sua prima lettera a Timoteo. (Vedi approfondimento a 1Tm 6:4.) Le discussioni da cui mette in guardia Paolo forse vertevano su divergenze di poco conto riguardo al significato delle parole, ma le conseguenze potevano essere dannose o addirittura disastrose.

speculazioni Paolo parla di un pericolo che sorge quando si presta attenzione a false storie e a genealogie. (Vedi gli approfondimenti false storie e genealogie in questo versetto.) Usa un termine greco che un lessico definisce “inutile speculazione”. Un’altra opera di consultazione fa notare che questo termine ha a che fare con “domande a cui non è possibile rispondere, che non meritano risposta”. Paolo mette in contrasto tali speculazioni con “qualcosa che [viene] da Dio riguardo alla fede”. In questo versetto, quindi, non si riferisce a ragionamenti logici che si fondano su solide basi scritturali e che pertanto possono rafforzare la fede (At 19:8; 1Co 1:10); piuttosto mette in guardia contro domande inutili e risposte discutibili che invece di unire i discepoli di Cristo è più probabile che li dividano.

discorsi vuoti Lett. “suoni vuoti”. Qui Paolo usa un termine greco che indica “conversazioni senza valore”. Alcune Bibbie lo traducono con “vaniloqui”, “chiacchiere”. Questi discorsi si basavano su speculazioni anziché sulle solide verità della Parola di Dio. Erano vuoti in quanto non contribuivano in alcun modo all’edificazione della fede (1Tm 1:6; 2Tm 4:4; Tit 3:9). Peggio ancora, queste chiacchiere futili spesso erano profane o irriverenti; ecco perché Paolo dice: violano ciò che è santo. Chi si impelagava in discorsi del genere sostituiva le verità della Parola di Dio con semplici pensieri umani. Paolo consiglia a Timoteo di non avere niente a che fare con simili discorsi (1Tm 4:7 e approfondimento; 2Tm 2:16).

Evita [...] i dibattiti sciocchi e da ignoranti Per la terza volta in questa lettera Paolo esorta Timoteo ad aiutare i cristiani di Efeso a smettere di dibattere su speculazioni e argomenti controversi (2Tm 2:14 e approfondimento, 16). Nella prima lettera che gli aveva scritto, Paolo aveva affrontato tematiche simili. (Vedi approfondimenti a 1Tm 1:4; 6:20.)

da ignoranti A proposito dei dibattiti che insidiavano la congregazione di Corinto, Paolo usa l’aggettivo “ignoranti” o, più letteralmente, “incolti”, “senza istruzione”. Con questo termine forse voleva lasciar intendere che chi si dedicava a questi dibattiti non aveva la basilare conoscenza cristiana che perfino un bambino dovrebbe avere. Quello che è certo è che queste persone non mettevano in pratica il più importante e basilare degli insegnamenti di Cristo: l’amore (Gv 13:34, 35).

schiavo di Cristo Gesù Il termine greco reso “schiavo” (doùlos) di solito viene usato per riferirsi a individui che erano di proprietà di qualcun altro; spesso si trattava di schiavi che erano stati acquistati (Mt 8:9; 10:24, 25; 13:27). Questo termine viene usato anche in senso figurato per indicare devoti servitori di Dio e di Gesù Cristo (At 2:18; 4:29; Gal 1:10; Ri 19:10). Quando cedette la sua vita come riscatto, Gesù acquistò la vita di tutti i cristiani. Di conseguenza i cristiani non appartengono a sé stessi ma si considerano “schiavi di Cristo” (Ef 6:6; 1Co 6:19, 20; 7:23; Gal 3:13). Per dimostrare sottomissione a Cristo, loro Signore e Padrone, tutti gli scrittori delle lettere ispirate delle Scritture Greche Cristiane indirizzate alle congregazioni si definirono almeno una volta nei loro scritti ‘schiavi di Cristo’ (Ro 1:1; Gal 1:10; Gc 1:1; 2Pt 1:1; Gda 1; Ri 1:1).

per essere schiavi di O “per servire”. Il verbo greco reso “essere schiavo” si riferisce al servire altri, di solito un unico padrone. Qui è usato in senso figurato a proposito del servizio reso a Dio con devozione completa (At 4:29; Ro 6:22; 12:11). Paolo sapeva che “essere schiavi di un Dio vivente e vero” significa avere una vita felice, di gran lunga migliore rispetto a una vita trascorsa essendo schiavi di idoli inanimati, di altri uomini oppure del peccato (Ro 6:6; 1Co 7:23; vedi approfondimenti a Mt 6:24; Ro 1:1).

premurosi Paolo e i suoi compagni d’opera erano premurosi con i fratelli di Tessalonica perché li amavano e avevano a cuore la loro crescita spirituale (1Ts 2:8). Ci sono traduzioni però che, invece di “premurosi”, qui hanno il termine “bambini”. La ragione è che alcuni manoscritti greci usano il termine èpioi (“premurosi”), mentre altri nèpioi (“bambini”), due termini che differiscono solo di una lettera. Secondo alcuni studiosi, il fatto che ci siano due lezioni diverse sarebbe frutto dell’errore di qualche copista che ripeté involontariamente la “n”, lettera con cui termina la parola precedente; si tratterebbe quindi di un errore di dittografia. Oltre a ciò, sia il contesto sia il paragone che segue (quello di una madre che nutre i suoi piccoli) fanno propendere per la lezione “premurosi”, lezione adottata da molte traduzioni moderne.

capace di insegnare Un sorvegliante dovrebbe essere un abile insegnante, che sappia trasmettere ai suoi compagni di fede le verità e i princìpi morali che si trovano nelle Scritture. Nella sua lettera a Tito, Paolo dice che il sorvegliante deve essere “uno che nella sua arte di insegnare si attenga fermamente alla fedele parola”; in questo modo riuscirà a incoraggiare, esortare e riprendere (Tit 1:5, 7, 9 e approfondimenti). Paolo usa l’espressione “capace di insegnare” anche nella sua seconda lettera a Timoteo, dove dice che “lo schiavo del Signore” deve essere “in grado di controllarsi [...], esortando con mitezza quelli che si oppongono” (2Tm 2:24, 25). Quindi un sorvegliante dovrebbe essere in grado di ragionare in modo convincente usando le Scritture, di dare validi consigli e di arrivare al cuore di chi lo ascolta. (Vedi approfondimento a Mt 28:20.) Deve studiare con attenzione la Parola di Dio così da poter insegnare ad altri che a loro volta studiano la Bibbia.

ti schiaffeggia sulla guancia destra In questo contesto il verbo greco rhapìzo (“schiaffeggiare”) è usato nel senso di “colpire con la mano aperta”. Probabilmente questo gesto era compiuto per provocare o insultare qualcuno, e non tanto per fargli del male. Gesù intende quindi dire che i suoi discepoli dovrebbero essere disposti a subire offese personali senza vendicarsi.

lo schiavo Il termine greco reso “schiavo” di solito si riferisce a un individuo che era di proprietà di qualcun altro (Tit 1:1; Gc 1:1; vedi approfondimento a Ro 1:1). Commentando questo versetto, un’opera di consultazione fa notare: “Essere schiavi di un uomo è degradante, ma essere schiavi di Dio è un grande onore”. (Vedi approfondimento a 1Ts 1:9.)

lo schiavo del Signore Il contesto suggerisce che il “Signore” menzionato si riferisce a Geova Dio (2Tm 2:19). I suoi adoratori vengono definiti suoi servitori o schiavi anche nelle Scritture Ebraiche (Gsè 1:1; 24:29; Gdc 2:8; 2Re 10:10; 18:12). Qui Paolo sta dando a Timoteo e agli altri sorveglianti istruzioni su come gestire situazioni difficili nella congregazione. Usando questa espressione, Paolo ricorda loro che devono sottomettersi alla guida di Dio e che devono rendergli conto del modo in cui trattano i compagni di fede. Le caratteristiche che menziona in questo versetto si vanno ad aggiungere ai requisiti per i sorveglianti riportati in 1Tm 3:1-7 e Tit 1:5-9. In senso più generale ogni singolo cristiano è “schiavo del Signore” e deve manifestare queste caratteristiche.

litigare Anche se di solito il verbo greco reso “litigare” era usato per descrivere un combattimento armato oppure corpo a corpo (At 7:26), in alcuni contesti si poteva riferire a scontri verbali (Gv 6:52; Gc 4:1, 2). Qui Paolo indica che “lo schiavo del Signore” non ha bisogno di farsi coinvolgere in controversie o “dibattiti sciocchi” (2Tm 2:14, 16, 23). Otterrà invece risultati migliori imitando i modi miti e gentili del Signore Gesù (Mt 11:29; 12:19).

deve essere gentile con tutti Paolo incoraggia Timoteo a essere gentile, o premuroso, con tutti, a differenza dei falsi maestri di Efeso che erano litigiosi e creavano divisioni (2Tm 2:23). L’espressione greca può anche essere resa “deve usare tatto con tutti”. Lo stesso Paolo aveva dovuto imparare a essere gentile. Prima di diventare cristiano, era un fanatico sostenitore delle tradizioni giudaiche, il che lo faceva essere privo di tatto e tutt’altro che gentile. Trattava infatti i discepoli di Cristo in modo violento e insolente. Gesù invece gli aveva mostrato gentilezza (At 8:3; 9:1-6; Gal 1:13, 14; 1Tm 1:13). Paolo aveva imparato anche che essere gentili non significa essere deboli; infatti non esitò mai a esprimersi in modo deciso e franco contro le pratiche sbagliate (1Co 15:34). Inoltre non fu mai aspro, trattò i compagni di fede con tatto e amore (1Ts 2:8), e cercò di essere premuroso “come una madre”. (Vedi approfondimento a 1Ts 2:7.) Paolo desiderava che Timoteo lo imitasse essendo gentile “con tutti”, inclusi non solo i cristiani che creavano problemi all’interno della congregazione ma persino gli oppositori all’esterno. Timoteo doveva promuovere non litigi e divisioni, ma amore e unità (2Tm 2:23, 25).

capace di insegnare Questa espressione traduce un termine greco che Paolo ha già usato in un elenco di requisiti per i sorveglianti cristiani. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.) Timoteo doveva essere in grado non solo di insegnare ma anche di gestire situazioni difficili nella congregazione. Comunque, in questo versetto Paolo sta parlando dello “schiavo del Signore”, espressione che non si riferisce solo agli anziani, ma a tutti i veri cristiani; tutti quindi devono essere capaci di insegnare. (Confronta Eb 5:12.)

in grado di controllarsi di fronte ai torti Questa espressione traduce un termine greco composto che significa “capace di sopportare il male”, senza mostrare risentimento. “Lo schiavo del Signore” deve resistere ai maltrattamenti con pazienza, controllandosi per evitare di rendere male per male (Ro 12:17). Timoteo aveva bisogno di questa qualità “di fronte ai torti” dei compagni di fede. Più avanti Paolo dice che tutti i cristiani possono aspettarsi di essere perseguitati (2Tm 3:12). È logico quindi che tutti hanno bisogno di sapersi “[controllare] di fronte ai torti”. (Vedi approfondimento a Mt 5:39.)

deve essere gentile con tutti Paolo incoraggia Timoteo a essere gentile, o premuroso, con tutti, a differenza dei falsi maestri di Efeso che erano litigiosi e creavano divisioni (2Tm 2:23). L’espressione greca può anche essere resa “deve usare tatto con tutti”. Lo stesso Paolo aveva dovuto imparare a essere gentile. Prima di diventare cristiano, era un fanatico sostenitore delle tradizioni giudaiche, il che lo faceva essere privo di tatto e tutt’altro che gentile. Trattava infatti i discepoli di Cristo in modo violento e insolente. Gesù invece gli aveva mostrato gentilezza (At 8:3; 9:1-6; Gal 1:13, 14; 1Tm 1:13). Paolo aveva imparato anche che essere gentili non significa essere deboli; infatti non esitò mai a esprimersi in modo deciso e franco contro le pratiche sbagliate (1Co 15:34). Inoltre non fu mai aspro, trattò i compagni di fede con tatto e amore (1Ts 2:8), e cercò di essere premuroso “come una madre”. (Vedi approfondimento a 1Ts 2:7.) Paolo desiderava che Timoteo lo imitasse essendo gentile “con tutti”, inclusi non solo i cristiani che creavano problemi all’interno della congregazione ma persino gli oppositori all’esterno. Timoteo doveva promuovere non litigi e divisioni, ma amore e unità (2Tm 2:23, 25).

mitezza Il termine descrive quella pacatezza e calma interiore che il cristiano manifesta nel suo rapporto con Dio e nel suo comportamento nei confronti degli altri (Gal 6:1; Ef 4:1-3; Col 3:12). Dato che è un aspetto del frutto dello spirito di Dio, la mitezza non si acquisisce con la sola forza di volontà. Il cristiano la coltiva avvicinandosi a Dio, chiedendogli il suo spirito in preghiera e lasciando che lo spirito agisca in lui. Essere miti non significa essere codardi o deboli. Il termine greco per “mitezza” (praỳtes) ha il significato di gentilezza e forza combinate insieme, forza sotto controllo. Nelle Scritture compare anche l’aggettivo corrispondente (praỳs), reso “mite” (Mt 21:5; 1Pt 3:4). Gesù si definì mite (Mt 11:29), ma non si può certo dire che fosse un debole. (Vedi Mt 5:5 e approfondimento.)

esortando con mitezza In questo contesto il verbo tradotto “esortare” può trasmettere anche l’idea di “correggere”, “istruire”, “educare”. Un’opera di consultazione fa notare che questo verbo significa aiutare qualcuno a sviluppare la capacità di prendere decisioni appropriate. “Lo schiavo del Signore” deve esortare “con mitezza”, ovvero con un atteggiamento umile e mite. In questo modo riuscirà a “essere gentile con tutti” (2Tm 2:24 e approfondimento; vedi anche approfondimento a Gal 5:23).

quelli che si oppongono Paolo usa un termine greco che in questo contesto si riferisce a persone che si rifiutano di seguire gli insegnamenti cristiani o vi oppongono resistenza. Forse aveva in mente, tra gli altri, quelli che nella congregazione di Efeso, manifestando un atteggiamento negativo, non applicavano i consigli scritturali o non tenevano conto degli avvertimenti dati dai fratelli che la guidavano.

Forse Dio concederà loro il pentimento Quando un anziano cristiano corregge o esorta “quelli che si oppongono”, il risultato potrebbe essere il loro pentimento, o “cambiamento di pensiero”. (Vedi Glossario, “pentimento”.) Il merito di un tale cambiamento di pensiero e di atteggiamento va, non a un essere umano, ma a Geova; è lui che aiuta il cristiano prima ostinato a fare questo passo fondamentale. Paolo prosegue menzionando alcuni dei bei risultati del pentimento: permette al peccatore di ottenere una conoscenza più accurata della verità, di tornare in sé e di sfuggire alle trappole di Satana (2Tm 2:26).

Tornate in voi Qui Paolo usa un verbo greco che principalmente significa “smaltire l’ubriachezza”, “tornare sobrio”. Dal momento che alcuni cristiani di Corinto prestavano ascolto a insegnamenti apostati, come quello che negava la risurrezione, si trovavano in uno stato di torpore spirituale: erano confusi e disorientati come fossero ubriachi. Paolo perciò li esorta a svegliarsi, a scrollarsi di dosso quella confusione afferrando il pieno significato dell’insegnamento della risurrezione. E dovevano farlo subito, prima che quel torpore li portasse ad ammalarsi o addirittura morire spiritualmente (1Co 11:30).

fuggiranno dalla trappola del Diavolo Paolo indica che nella congregazione alcuni erano caduti nella “trappola del Diavolo”. A quanto pare erano diventati vittime del Diavolo permettendogli di sviarli e di allontanarli dalla verità (2Tm 2:18, 23, 25). L’espressione “li aveva presi vivi perché facessero la sua volontà” potrebbe suggerire che il Diavolo avesse usato menzogne per farli cadere in trappola senza che se ne accorgessero. Satana quindi non li aveva uccisi, ma li aveva manipolati affinché facessero il suo gioco. Paolo invita Timoteo a esortare “con mitezza” quelli che si erano sviati così che questi potessero “[tornare] in sé” o, alla lettera, “smaltire l’ubriachezza”. (Vedi approfondimento a 1Co 15:34.) Coloro che si fossero pentiti si sarebbero liberati dalla trappola del Diavolo.

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Paolo: le catene non lo fermano
Paolo: le catene non lo fermano

Paolo è prigioniero a Roma per la seconda volta. Sa che la sua morte è imminente (2Tm 4:6). Come se non bastasse, alcuni dei suoi compagni d’opera, incluso Dema, lo hanno abbandonato (2Tm 1:15; 4:10). Paolo, però, ha buone ragioni per essere felice: diversi fratelli, mostrando coraggio, non si sono vergognati di lui e lo hanno aiutato (2Tm 4:21); un esempio è quello di Onesiforo, che a Roma lo ha cercato dappertutto pur di trovarlo (2Tm 1:16, 17). Paolo è in prigione, ma le catene non lo fermano. È infatti concentrato sulla ricompensa che gli è stata riservata nel “Regno celeste” di Cristo (2Tm 4:8, 18). E, nonostante stia attraversando un momento difficile, pensa non a sé stesso ma agli altri. Dalla prigione scrive a Timoteo la sua seconda lettera ispirata, esortandolo a continuare a essere fedele (2Tm 1:7, 8; 2:3).

Gli utensili di una grande casa
Gli utensili di una grande casa

Nelle case delle famiglie romane benestanti c’erano molti utensili. In cucina gli schiavi adoperavano pentole e padelle di terracotta e di bronzo. Per conservare liquidi come vino e olio d’oliva utilizzavano grandi giare e anfore di terracotta. Nella sala da pranzo si usavano stoviglie di vetro colorato, bronzo, argento oppure ceramica. In casa c’erano anche recipienti destinati a tutt’altro scopo, per esempio contenitori per i rifiuti e vasi da notte. A volte nella Bibbia si parla metaforicamente di vasi in riferimento a persone (At 9:15, nt.). L’apostolo Paolo paragona la congregazione cristiana a “una grande casa” e i suoi componenti a “utensili”, o recipienti di uso domestico. Proprio come gli utensili “per un uso onorevole” devono rimanere separati da quelli “per un uso privo di onore”, i cristiani devono evitare di stare in stretta compagnia di coloro che all’interno della congregazione potrebbero esercitare un’influenza corruttrice (2Tm 2:20, 21).