Prima lettera a Timoteo 2:1-15

2  Innanzitutto, raccomando che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni e ringraziamenti riguardo a ogni tipo di persona,  riguardo a re e a tutti quelli che hanno una posizione di autorità,+ affinché possiamo continuare a condurre una vita calma e tranquilla con totale devozione a Dio e serietà.+  Questo è eccellente e gradito agli occhi del nostro Salvatore, Dio,+  il quale vuole che ogni tipo di persona sia salvata+ e giunga all’accurata conoscenza della verità.  C’è infatti un solo Dio,+ e un solo mediatore+ fra Dio e gli uomini,+ l’uomo Cristo Gesù,+  che ha dato sé stesso come riscatto corrispondente per tutti.+ È questo che sarà testimoniato al tempo stabilito,  e a tale scopo+ sono stato costituito predicatore e apostolo+ (dico la verità, non mento), maestro di nazioni+ riguardo alla fede e alla verità.  Desidero quindi che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando mani leali,+ senza ira+ e dibattiti.+  Allo stesso modo, desidero che le donne si adornino vestendosi in modo appropriato, con modestia e buon senso, non con acconciature intrecciate, oro, perle o abiti molto costosi,+ 10  ma come si addice a donne che professano di essere devote a Dio,+ cioè con opere buone. 11  La donna impari in silenzio* con piena sottomissione.+ 12  Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo; deve invece rimanere in silenzio.*+ 13  Infatti prima fu formato Adamo, poi Eva.+ 14  Inoltre non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna a essere completamente ingannata,+ cadendo nella trasgressione. 15  Comunque, lei sarà salvaguardata per mezzo del parto,+ purché si mantenga* nella fede, nell’amore e nella santità con buon senso.+

Note in calce

O “con spirito quieto (tranquillo)”.
O “essere quieta (tranquilla)”.
Lett. “si mantengano”.

Approfondimenti

preghiere e suppliche accompagnate da ringraziamenti Il sostantivo “preghiera” usato qui è un termine generico con cui si intende il parlare con devozione a Dio. Il sostantivo “supplica” è più specifico; si tratta di una parola molto forte che dà l’idea di un’implorazione, spesso accompagnata da intense emozioni e anche lacrime (Eb 5:7). Un’opera di consultazione ne parla come di un “grido d’aiuto che nasce da uno stato di bisogno”. Aggiungendo poi “accompagnate da ringraziamenti”, Paolo dimostra che è sempre giusto esprimere gratitudine a Dio. Anche in momenti di grave difficoltà ci sono motivi per essere grati, e Paolo lo sapeva per esperienza personale (At 16:22-25; Ef 5:19, 20). L’apostolo menziona anche le richieste. Questa categoria, come dice la parola stessa, si concentra sulle cose che si chiedono in preghiera. Le richieste del cristiano, come spiega Paolo, possono abbracciare un’ampia gamma di necessità. (Vedi l’approfondimento in ogni cosa in questo versetto.)

suppliche, preghiere, intercessioni e ringraziamenti Per mettere in risalto l’importanza della preghiera, Paolo usa termini diversi dal significato simile. (Vedi approfondimento a Flp 4:6.) Per quanto riguarda il termine “intercessioni”, in questo contesto sembra fare riferimento a richieste fatte a Dio in favore di altri. Nella Bibbia si fa menzione di questo tipo di richieste. Un esempio è quello di Mosè che intercede in favore di Miriam e del popolo d’Israele (Nu 12:10-13; 21:7). Altri esempi si trovano nelle Scritture Greche Cristiane, dove i servitori di Dio sono esortati a pregare in favore di altri (2Co 1:11; 2Ts 3:1; Eb 13:18, 19; Gc 5:14-18). Per quanto riguarda il termine “ringraziamenti”, invece, Paolo più volte invitò i cristiani a esprimere la loro gratitudine in preghiera (2Co 4:15; Col 2:7; 4:2).

autorità superiori Cioè le autorità governative. Il termine qui reso “autorità” è il plurale del termine greco exousìa. L’uso di questo termine in riferimento a governanti o autorità probabilmente non era qualcosa di nuovo per chi leggeva la Settanta. (Vedi Da 7:6, 14, 27; 11:5, dove exousìa è usato per rendere in greco i termini ebraici e aramaici che in questi passi sono tradotti “autorità di governare”, “dominio”, “autorità”.) In Lu 12:11 exousìa ricorre nell’espressione “funzionari governativi e autorità”. Il termine greco reso “superiori” è affine a quello usato in 1Tm 2:2 nell’espressione “tutti quelli che hanno una posizione di autorità [o “sono in una posizione superiore”]”. In alcuni contesti indica il predominio, il potere o l’autorità che si ha su altri, ma non dà l’idea di autorità assoluta, di supremazia. Lo dimostra l’uso di questo termine in Flp 2:3, dove i cristiani vengono esortati a considerare gli altri “superiori” a loro stessi, ma non superiori in senso assoluto.

devozione a Dio Il termine greco eusèbeia trasmette l’idea di profonda riverenza e rispetto che un cristiano esprime a Dio servendolo lealmente e ubbidendogli in modo completo. Ha un significato ampio, infatti fa anche pensare a quell’amore leale o a quell’attaccamento verso Dio che spinge una persona a cercare di fare ciò che piace a lui. Un lessico riassume così il significato generale di questo termine: “vivere come Dio vuole che viviamo”. Paolo fa anche capire che la devozione a Dio non è una caratteristica innata. È per questo motivo che esorta Timoteo a darsi da fare per rafforzare questa qualità, esercitandosi, o allenandosi, come fa un atleta. Poco prima nella lettera, Paolo gli ha ricordato che Gesù Cristo ha lasciato l’esempio più incisivo di devozione a Dio. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:16.)

Signore L’identità di colui che in questo versetto è chiamato “Signore” (Kỳrios) non può essere stabilita con certezza dal contesto. Anche i biblisti non sono concordi nel dire se Paolo con “Signore” intendesse Gesù Cristo o Geova. Ro 10:9 si riferisce chiaramente a Gesù Cristo chiamandolo “Signore”, e anche la citazione di Isa 28:16 che si trova in Ro 10:11 è riferita a lui. Quindi se il “Signore” di Ro 10:12 è da collegarsi direttamente al “lui” di Ro 10:11, allora il “Signore” a cui si fa riferimento è Gesù Cristo. D’altra parte, in Ro 10:9 si parla di esercitare fede con il cuore nel fatto che “Dio lo ha risuscitato dai morti”. Inoltre Ro 10:13, citazione di Gle 2:32, dice: “Chiunque invocherà il nome di Geova sarà salvato”. Quindi se il “Signore” di Ro 10:12 è lo stesso di quello di Ro 10:13, allora si tratta di Geova Dio. Il concetto sarebbe pertanto lo stesso di quello espresso in Ro 3:29: esiste un solo Dio al di sopra degli ebrei e dei non ebrei. Questo è un esempio di come il Comitato di Traduzione della Bibbia del Nuovo Mondo abbia esaminato il contesto di ogni occorrenza del termine Kỳrios per determinare dove ripristinare il nome divino. Se il ripristino del nome divino non è supportato con chiarezza dal contesto o da richiami alle Scritture Ebraiche, il comitato ha mantenuto la resa “Signore” per non oltrepassare i limiti del traduttore sconfinando nel campo dell’interpretazione del testo. (Vedi App. C1.)

tutti quelli che hanno una posizione di autorità Questa espressione si riferisce ad autorità governative e a funzionari di vario tipo. (Vedi approfondimento a Ro 13:1.) Il termine re che compare in questo versetto includeva sia le autorità locali sia l’imperatore romano. Quando Paolo scrisse questa lettera, intorno al 61-64, l’imperatore era Nerone, che regnò dal 54 al 68.

affinché possiamo continuare a condurre una vita calma e tranquilla Qui Paolo spiega un motivo per cui i cristiani dovrebbero pregare riguardo a chi ha una posizione di autorità: Dio potrebbe rispondere a queste preghiere inducendo le autorità a permettere ai cristiani di continuare a servirlo senza essere perseguitati e di vivere in pace “con totale devozione [...] e serietà”. (Confronta Ger 29:7.) In questo modo i cristiani possono avere più libertà per continuare a predicare, attività che dà a “ogni tipo di persona” la possibilità di essere salvata (1Tm 2:4). Quando Paolo gli scrisse, Timoteo serviva a Efeso; i cristiani che erano stati tra i primi componenti della congregazione locale avranno sicuramente capito in che modo uomini che hanno posizioni di autorità possono influire sul ministero. Ricordavano ad esempio quando, alcuni anni prima, durante il terzo viaggio missionario di Paolo (ca. 52-56), un funzionario aveva acquietato una folla che si era opposta alla predicazione sua e dei suoi compagni d’opera (At 19:23-41). Comunque, indipendentemente da quello che fanno le autorità, i cristiani pregano Dio perché li aiuti a continuare a predicare (At 4:23-31).

devozione a Dio O “santa devozione”. Il termine greco usato qui, eusèbeia, fa riferimento a un senso di riverenza e di profondo rispetto nei confronti di Dio; per questo motivo la parola “Dio”, anche se non compare nel termine originale, è stata esplicitata. (Per una trattazione del termine greco reso “devozione a Dio”, vedi approfondimento a 1Tm 4:7.) Questo stesso termine a volte viene usato anche nella Settanta. Per esempio compare in Isa 11:2 e 33:6, dove il testo ebraico usa l’espressione “timore di Geova”, che si riferisce ugualmente a profondo rispetto per Geova Dio. Quando nel V secolo fu realizzata la Pescitta, traduzione della Bibbia in siriaco, in 1Tm 2:2 il termine greco eusèbeia fu reso “riverenza verso Dio”, con l’esplicitazione della parola “Dio”. Sulla stessa falsariga, alcune successive traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane hanno reso eusèbeia con “timore di Geova” sia in questo versetto sia in altri dove compare il termine (1Tm 3:16; 4:7, 8; 6:3, 6, 11). Comunque, il Comitato di Traduzione della Bibbia del Nuovo Mondo ha ritenuto che non ci fossero sufficienti ragioni a sostegno del ripristino del nome divino nel testo principale di questo versetto. (Per altre ragioni prese in considerazione nel valutare se ripristinare il nome divino in altri versetti, vedi App. C; confronta approfondimento a Ro 10:12.)

ogni tipo di persona Anche se l’espressione greca usata qui potrebbe essere tradotta letteralmente “tutti gli uomini” (nel senso di esseri umani, sia maschi che femmine), la resa “ogni tipo di persona” è giustificata dal contesto. (Per altri esempi, vedi approfondimenti a Gv 12:32; At 2:17.) Dio desidera che tutti gli esseri umani “giungano al pentimento” (2Pt 3:9), quindi offre a tutti in modo imparziale la possibilità di salvarsi, indipendentemente da genere, etnia e condizione economica o sociale (Mt 28:19, 20; At 10:34, 35; 17:30). Vari passi delle Scritture, però, indicano chiaramente che molti non accetteranno l’invito di Dio e non saranno salvati (Mt 7:13, 21; Gv 3:16, 36; 2Ts 1:9). Pertanto la resa “ogni tipo di persona” è in armonia con questi versetti. Questa scelta traduttiva è appropriata anche nei versetti precedenti, dove Paolo esorta i cristiani a pregare “riguardo a ogni tipo di persona, riguardo a re e a tutti quelli che hanno una posizione di autorità” (1Tm 2:1, 2).

sia salvata A volte i termini resi “salvare” e “salvezza” vengono usati dagli scrittori biblici per trasmettere l’idea di liberazione da un pericolo o dall’annientamento, dalla distruzione (Eso 14:13, 14; At 27:20). Spesso, però, questi termini fanno riferimento alla liberazione dal peccato (Mt 1:21). Dato che la morte è una conseguenza del peccato, chi viene salvato da esso ha la speranza di vivere per sempre (Gv 3:16, 17; vedi approfondimento a 1Tm 1:1).

giunga all’accurata conoscenza La volontà di Dio è che tutti conoscano lui e i suoi propositi nel modo più accurato, o completo, possibile. (Per una trattazione del termine greco qui reso “accurata conoscenza”, vedi approfondimenti a Ro 10:2; Ef 4:13.)

conoscenza accurata Nelle Scritture Greche Cristiane ci sono due termini comunemente tradotti “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Entrambi derivano dal verbo ginòsko (“conoscere”, “comprendere”). Epìgnosis, il termine usato qui, è una forma intensiva di gnòsis (epì letteralmente significa “sopra” ma in questo caso trasmette l’idea di “ulteriore”, “aggiuntivo”). Spesso epìgnosis significa, come risulta dal contesto, “conoscenza piena, autentica o esatta”. Qui Paolo lo usa per mostrare che lo zelo dei suoi connazionali, gli ebrei, era rivolto nella direzione sbagliata. Non si fondava su una corretta comprensione della volontà di Dio rivelata tramite Gesù, il promesso Messia.

persone di ogni tipo Gesù dichiara che attirerà a sé persone provenienti da ogni ambiente, indipendentemente dalla nazionalità, dalla razza o dalle condizioni economiche (At 10:34, 35; Ri 7:9, 10; vedi approfondimento a Gv 6:44). È degno di nota che, in questa occasione, “dei greci” che erano al tempio per adorare vollero vedere Gesù. (Vedi approfondimento a Gv 12:20.) Molte traduzioni rendono il termine greco pàs in un modo che dà l’idea che infine Gesù attirerà a sé tutti gli esseri umani. Quest’idea, però, non è in armonia con il resto delle Scritture ispirate (Sl 145:20; Mt 7:13; Lu 2:34; 2Ts 1:9). È vero che pàs significa letteralmente “tutto” o “ogni” (Ro 5:12), ma Mt 5:11 e At 10:12 mostrano chiaramente che può significare “ogni tipo”, “ogni genere”; ci sono anche altre traduzioni che in questi versetti lo traducono con “di ogni sorta”, “di tutti i tipi” (Gv 1:7; 1Tm 2:4).

ogni tipo di persona L’espressione greca originale, che potrebbe essere letteralmente tradotta “ogni carne”, è composta da pàs (“ogni”, “tutto”) e sàrx (spesso reso “carne” in riferimento, come qui, a esseri umani in vita). In genere indica tutta l’umanità. (Vedi approfondimento a Gv 17:2.) Ma in questo contesto ha un senso più ristretto. Dio non versò il suo spirito su tutti gli esseri umani sulla terra, né tanto meno su tutti gli esseri umani in Israele, quindi qui questa espressione non si riferisce a tutta l’umanità nel suo complesso. Si riferisce piuttosto a persone di ogni tipo, senza distinzioni di alcun genere. Dio versò spirito santo su ‘figli e figlie, giovani e vecchi, servi e serve’, ovvero persone di ogni tipo (At 2:17, 18). Un uso simile della parola greca pàs si riscontra in 1Tm 2:3, 4, secondo cui Dio “vuole che ogni tipo di persona sia salvata”. (Vedi approfondimento a Gv 12:32.)

Dio, nostro Salvatore Nella prima lettera a Timoteo e in quella a Tito, Paolo usa il termine “Salvatore” sei volte riferendosi a Geova Dio (qui e in 1Tm 2:3; 4:10; Tit 1:3; 2:10; 3:4); nel resto delle Scritture Greche Cristiane, invece, compare solo due volte riferito a Geova (Lu 1:47; Gda 25). Nelle Scritture Ebraiche, si parla spesso di Geova come del Salvatore del suo popolo, Israele (Sl 106:8, 10, 21; Isa 43:3, 11; 45:15, 21; Ger 14:8). Anche Gesù, però, può a buon diritto essere definito “Salvatore”, perché è tramite lui che Geova salva gli esseri umani dal peccato e dalla morte (At 5:31; 2Tm 1:10). Inoltre è definito “colui che [...] conduce alla salvezza” (Eb 2:10). Il nome Gesù, dato sotto guida angelica al Figlio di Dio, significa “Geova è salvezza”; infatti l’angelo spiegò: “Salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mt 1:21 e approfondimento). Questo nome, quindi, sottolinea il fatto che Geova è la Fonte della salvezza mediante Gesù. Ecco perché il termine “Salvatore” può essere giustamente utilizzato per riferirsi sia al Padre che al Figlio (Tit 2:11-13; 3:4-6). Il termine ebraico e quello greco (nella Settanta) per “salvatore” vengono usati per indicare anche esseri umani scelti come “salvatori che [...] liberavano” il popolo di Dio dai nemici (Ne 9:27; Gdc 3:9, 15).

accurata conoscenza Nelle Scritture Greche Cristiane ci sono due termini comunemente tradotti “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Epìgnosis, il termine usato qui, è una forma intensiva di gnòsis (epì letteralmente significa “sopra” ma in questo caso trasmette l’idea di “ulteriore”, “aggiuntivo”). In base al contesto può significare “conoscenza piena, autentica o esatta”. (Vedi approfondimento a Ro 10:2.) Qui Paolo lo usa per mostrare che il cristiano maturo deve raggiungere, non individualmente ma unitamente ai suoi compagni di fede, una conoscenza piena del Figlio di Dio, Cristo Gesù (1Co 1:24, 30; Ef 3:18; Col 2:2, 3; 2Pt 1:8; 2:20).

un mediatore Il mediatore il cui nome non viene menzionato era Mosè. Geova lo impiegò come intermediario per concludere un patto, o accordo legalmente vincolante, con la nazione d’Israele. (Vedi Glossario, “mediatore”.) La parola greca mesìtes, tradotta “mediatore”, è un termine giuridico che compare sei volte nelle Scritture Greche Cristiane (Gal 3:19, 20; 1Tm 2:5; Eb 8:6; 9:15; 12:24). Secondo un lessico si riferisce a “chi interviene tra due parti per stabilire o ricreare una condizione di pace oppure un legame di amicizia, per fare un accordo o per ratificare un patto”. Essendo il mediatore del patto della Legge, Mosè aiutò la nazione d’Israele a osservare quel patto e a riceverne i benefìci. Per esempio ne coordinò l’inaugurazione (Eso 24:3-8; Eb 9:18-22), si occupò dell’insediamento dei sacerdoti e diede inizio alle loro attività (Le 8:1-36; Eb 7:11), trasmise agli israeliti una raccolta di più di 600 leggi e supplicò più volte Geova di risparmiare loro la punizione (Nu 16:20-22; 21:7; De 9:18-20, 25-29).

mediatore Il termine “mediatore” si riferisce al ruolo legale ricoperto da Gesù in relazione al nuovo patto; infatti in Eb 9:15 è definito “mediatore di un nuovo patto”. (Vedi Glossario, “mediatore”, e approfondimento a Gal 3:19.) Gesù “ha dato sé stesso come riscatto corrispondente per tutti”, il che ha permesso a ogni tipo di uomini e donne di entrare a far parte del nuovo patto (1Tm 2:6). Questo è un patto tra Dio e i 144.000 cristiani unti con lo spirito (Lu 22:20; Eb 8:6, 10-13; Ri 7:4-8).

ha dato sé stesso come riscatto corrispondente L’espressione “riscatto corrispondente” traduce il termine greco antìlytron, che è composto da antì- (“in cambio di”, “in corrispondenza di”, “in luogo di”) e lỳtron (“riscatto”, “prezzo di riscatto”). Gesù diede in sacrificio la sua vita umana perfetta la quale corrisponde esattamente alla vita umana perfetta che Adamo aveva perso ribellandosi a Dio. Geova poté accettare il sacrificio di Gesù come “riscatto corrispondente” perché questo soddisfa pienamente le sue alte norme di giustizia. In questo versetto molte traduzioni della Bibbia hanno semplicemente “riscatto”, come in Mt 20:28 e Mr 10:45; ma in questi versetti compare il termine lỳtron. (Vedi approfondimento a Mt 20:28; Glossario, “riscatto”.) Qui in 1Tm 2:6, invece, Paolo usa il termine antìlytron, che nelle Scritture Greche Cristiane compare solo in questo punto. Commentando il suo significato, un lessico dà questa definizione: “Riscatto, prezzo di redenzione, o per meglio dire riscatto corrispondente” (A Greek and English Lexicon to the New Testament, a cura di J. Parkhurst). Alla luce di tutto ciò, la resa “riscatto corrispondente” è più appropriata. (Confronta approfondimento a 1Co 15:45.)

per tutti O “per ogni tipo di persona”. (Vedi Mt 20:28; Gv 3:16; vedi anche approfondimento a 1Tm 2:4.)

riscatto Qui compare il termine greco lỳtron, che deriva da lỳo (“sciogliere”, “liberare”) e che nel greco non biblico era usato in riferimento al prezzo pagato per liberare uno schiavo o una persona vincolata da un debito oppure per riscattare prigionieri di guerra. Compare due volte nelle Scritture Greche Cristiane, qui e in Mr 10:45. Il termine affine antìlytron compare in 1Tm 2:6 ed è reso “riscatto corrispondente”. Altri termini affini sono lytròomai, reso “liberare”, “riscattare” (Tit 2:14; 1Pt 1:18; anche ntt.), e apolỳtrosis, spesso reso “liberazione per riscatto” (Ro 3:24; 8:23; Ef 1:7; Col 1:14; Eb 9:15, nt.; 11:35, nt.). (Vedi Glossario.)

Il primo uomo, Adamo [...] L’ultimo Adamo Nella prima parte del versetto Paolo cita Gen 2:7 (“l’uomo diventò un essere vivente”), ma aggiunge le parole “primo” e “Adamo”. Nella seconda parte del versetto chiama Gesù “l’ultimo Adamo”. Poi in 1Co 15:47 chiama Adamo “il primo uomo” e Gesù “il secondo uomo”. Il primo Adamo disubbidì al Padre, colui che gli aveva dato la vita; l’ultimo Adamo gli mostrò assoluta ubbidienza. Il primo Adamo trasmise ai suoi discendenti il peccato; l’ultimo Adamo diede la sua vita umana come sacrificio di espiazione per i peccati (Ro 5:12, 18, 19). Geova poi riportò in vita Gesù come spirito (1Pt 3:18). Visto che Gesù, come Adamo, era un uomo perfetto, Geova coerentemente con i suoi stessi princìpi di giustizia ne poté accettare il sacrificio “come riscatto corrispondente” per ricomprare i discendenti di Adamo; questo sacrificio di riscatto avrebbe ridato agli esseri umani le stesse prospettive di vita che il primo Adamo aveva perso (1Tm 2:5, 6). Pertanto Gesù poteva giustamente essere definito “l’ultimo Adamo”, a indicare che dopo di lui non ci sarebbe stato bisogno di un altro Adamo. (Confronta approfondimenti a Lu 3:38; Ro 5:14.)

ogni tipo di persona Anche se l’espressione greca usata qui potrebbe essere tradotta letteralmente “tutti gli uomini” (nel senso di esseri umani, sia maschi che femmine), la resa “ogni tipo di persona” è giustificata dal contesto. (Per altri esempi, vedi approfondimenti a Gv 12:32; At 2:17.) Dio desidera che tutti gli esseri umani “giungano al pentimento” (2Pt 3:9), quindi offre a tutti in modo imparziale la possibilità di salvarsi, indipendentemente da genere, etnia e condizione economica o sociale (Mt 28:19, 20; At 10:34, 35; 17:30). Vari passi delle Scritture, però, indicano chiaramente che molti non accetteranno l’invito di Dio e non saranno salvati (Mt 7:13, 21; Gv 3:16, 36; 2Ts 1:9). Pertanto la resa “ogni tipo di persona” è in armonia con questi versetti. Questa scelta traduttiva è appropriata anche nei versetti precedenti, dove Paolo esorta i cristiani a pregare “riguardo a ogni tipo di persona, riguardo a re e a tutti quelli che hanno una posizione di autorità” (1Tm 2:1, 2).

sono stato costituito predicatore Le Scritture Greche Cristiane indicano chiaramente che l’apostolo Paolo prendeva sul serio il compito che gli era stato assegnato. Per esempio, qui e in 2Tm 1:11, per descriverlo usa tre termini (“predicatore”, “apostolo”, “maestro”), ognuno dei quali mette in risalto un aspetto particolare del suo incarico. Il primo di questi termini è “predicatore”: Paolo era un predicatore, o proclamatore del messaggio di Dio, proprio come lo erano stati Gesù e Giovanni Battista (Mt 4:17; Lu 3:18; vedi approfondimento a Mt 3:1). Allo stesso modo Noè era stato “predicatore di giustizia” (2Pt 2:5).

apostolo Gesù Cristo scelse Paolo come “apostolo”, che alla lettera significa “mandato”, “inviato” (At 9:15; Ro 1:5). Paolo stesso si definisce “apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio” e “apostolo delle nazioni” (1Co 1:1; Ro 11:13 e approfondimento; vedi approfondimento a Ro 1:1).

dico la verità, non mento Paolo potrebbe aver sentito la necessità di ribadire la veridicità delle sue parole perché certuni asserivano che lui fosse un falso apostolo. A quanto pare qualche cristiano si era lasciato influenzare da queste accuse (2Co 11:4, 5; Gal 1:6, 7, 11, 12). Forse alcuni di coloro che cercavano di screditare Paolo erano tra i falsi maestri che Timoteo doveva affrontare a Efeso (1Tm 1:3, 4). In questo versetto Paolo usa un’espressione che richiama alcune formule o giuramenti comuni nelle procedure legali romane. In questo modo rassicura Timoteo, come pure gli altri cristiani di Efeso, del fatto che lui, Paolo, era un vero apostolo. Espressioni simili ricorrono anche in Ro 9:1 e Gal 1:20.

maestro di nazioni In qualità di “maestro”, Paolo ragionava con i suoi ascoltatori e persuadeva molti a riporre fede in Cristo (At 17:2; 28:23; vedi approfondimento a Mt 28:20). Inoltre, dal momento che insegnava a molti non ebrei, poteva essere definito “maestro di nazioni”. Questa espressione evidenzia la portata mondiale dell’opera di predicazione e insegnamento svolta dai cristiani e iniziata nel I secolo.

insegnando loro Il verbo greco “insegnare” implica istruire, spiegare, argomentare in modo convincente e fornire prove a sostegno di ciò che si dice. (Vedi approfondimenti a Mt 3:1; 4:23.) Insegnare a qualcuno a osservare tutte le cose comandate da Gesù dovrebbe essere un processo continuo, che include insegnargli ciò che Gesù ha insegnato, aiutarlo ad applicarne gli insegnamenti e a seguirne l’esempio (Gv 13:17; Ef 4:21; 1Pt 2:21).

apostolo Il sostantivo greco qui usato (apòstolos) deriva da un verbo (apostèllo) che significa “inviare”, “mandare” (Mt 10:5; Lu 11:49; 14:32). Il significato fondamentale di apòstolos risulta chiaro dalle parole di Gesù riportate in Gv 13:16, dove è tradotto “chi è mandato”. Paolo fu chiamato a essere apostolo delle nazioni, o dei non giudei, e fu scelto per questo ruolo direttamente da Gesù Cristo risorto (At 9:1-22; 22:6-21; 26:12-23). Paolo difese il suo apostolato facendo riferimento al fatto che aveva visto il Signore Gesù Cristo risuscitato (1Co 9:1, 2) e aveva compiuto miracoli (2Co 12:12). Era anche stato impiegato per far scendere lo spirito santo su credenti battezzati, il che dimostrava ulteriormente che era un vero apostolo (At 19:5, 6). Pur definendosi spesso apostolo, non si include mai fra i Dodici (1Co 15:5, 8-10; Ro 11:13; Gal 2:6-9; 2Tm 1:1, 11).

apostolo delle nazioni Cioè dei non ebrei. Quando Paolo si convertì al cristianesimo, probabilmente verso il 34, Gesù disse di lui: “Quest’uomo è uno strumento che mi sono scelto per portare il mio nome alle nazioni e anche ai re e ai figli d’Israele” (At 9:15). Paolo fu quindi scelto dal Signore Gesù Cristo per essere “apostolo [che significa “mandato”, “inviato”] delle nazioni” (At 26:14-18; Ro 1:5; Gal 1:15, 16; 1Tm 2:7). Anche se era fermamente convinto del proprio apostolato e ne aveva le prove, la Bibbia non dice mai che avesse preso il posto di uno dei “Dodici”, né lui si incluse mai tra loro (1Co 15:5-8; confronta approfondimento ad At 1:23).

predicare Il termine greco significa fondamentalmente “proclamare come araldo”. Sottolinea il modo in cui avviene la proclamazione, dando l’idea di una dichiarazione pubblica, estesa, e non di un discorso rivolto solo a un gruppo di persone.

gli uomini preghino Paolo si sta riferendo alle preghiere pronunciate in pubblico nella congregazione, privilegio riservato solo agli uomini (1Co 14:34; 1Tm 2:11, 12). L’espressione alzando mani descrive una posizione che nei tempi biblici era comune assumere quando si pregava. Ad esempio, non era insolito che un uomo che pronunciava una preghiera pubblica stendesse le mani verso il cielo per chiedere il favore di Dio. (Confronta 1Re 8:22, 23.) Comunque i fedeli servitori di Dio potevano pregare anche in altre posizioni, e la Bibbia non considera una postura migliore di un’altra (1Cr 17:16; Mr 11:25; At 21:5). La cosa più importante quando si pregava era l’atteggiamento. In questo versetto Paolo sottolinea infatti che coloro che pregano devono essere leali. Il termine greco reso “leale” potrebbe anche essere tradotto “santo”, “puro” o “consacrato”. Pertanto, ciò che conta per Geova è la purezza morale dell’uomo che prega e il suo affidarsi a Lui con devozione e lealtà. (Confronta approfondimento a Tit 1:8.)

senza ira e dibattiti Questo consiglio ispirato è in armonia con uno dei requisiti per i sorveglianti cristiani menzionati più avanti nella lettera, dove si legge che questi non devono essere litigiosi (1Tm 3:1, 3). Paolo pertanto fa comprendere che nessun fratello dovrebbe pronunciare una preghiera in pubblico se ha un atteggiamento divisivo. Alcune traduzioni qui menzionano “collera”, “polemiche” o “rancore”. Tali atteggiamenti negativi infatti potrebbero facilmente condizionare toni o contenuti delle preghiere pronunciate. Questo consiglio è perfettamente in linea con le parole con cui Paolo esorta tutti i cristiani a evitare rancore e discussioni divisive (Ef 4:31; Flp 2:14; Col 3:8 e approfondimento).

ira, collera Le due parole usate qui da Paolo hanno un significato molto simile. Alcuni studiosi sostengono che il primo termine (orgè), per come era usato in origine, descriveva in particolare una rabbia provata dentro di sé ma non esternata, mentre il secondo (thymòs) l’esternazione o lo sfogo di quel sentimento. All’epoca in cui scrive Paolo, però, questa distinzione forse non era più così netta. Usando entrambi i termini, Paolo vuole mettere in guardia sia dal pericolo di lasciar inasprire la rabbia nel proprio cuore sia da quello di sfogarla in uno scoppio d’ira (Ef 4:31; vedi approfondimenti a Ef 4:26).

leale Un sorvegliante leale è incrollabilmente devoto a Geova e si attiene fedelmente ai princìpi contenuti nella sua Parola. Rimane con tenacia al fianco dei suoi compagni di fede quando affrontano prove e persecuzione. Anche se il termine greco qui usato può trasmettere l’idea di “santo” o “devoto” (come viene tradotto in alcune Bibbie), la resa “leale” è ben attestata. Per esempio questo termine compare spesso nella Settanta come traducente di una parola ebraica che significa “leale” (2Sa 22:26; Sl 18:25; 97:10). Non a caso un’opera di consultazione dice che questo termine descrive “l’uomo che è leale a Dio”. (Vedi approfondimento a 1Tm 2:8.)

in modo appropriato O “in modo decoroso”. L’espressione traduce un termine greco che, in questo contesto, trasmette l’idea di un abbigliamento dignitoso e opportuno. Questo è l’aspetto che dovrebbe avere chi si professa ministro di Dio.

con modestia Qui l’idea di modestia include la capacità di tenere conto non solo della propria coscienza ma anche dei sentimenti e delle opinioni altrui. Un cristiano che è modesto dovrebbe evitare di vestirsi o acconciarsi in un modo che possa essere considerato indecente, che attiri troppa attenzione o che possa offendere o scandalizzare altri (1Co 10:32, 33).

buon senso O “sanità di mente”, “assennatezza”. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.)

non con acconciature intrecciate, oro, perle o abiti molto costosi Ai giorni di Paolo molte donne pagane erano solite fare sfoggio della loro ricchezza o del loro status. Si facevano acconciature elaborate, intrecciavano i capelli con ornamenti d’oro e indossavano abiti costosi e gioielli preziosi in abbondanza. Questo sfoggio era ritenuto eccessivo persino da molti non cristiani. Tanto più era considerato disdicevole dai cristiani, perché poteva creare competizione o addirittura distrarre molti dalla pura adorazione. Per questo motivo Paolo esorta le donne cristiane a mostrare giudizio e a evitare di andare agli estremi con il proprio look. In modo simile, Pietro consigliò le donne cristiane a concentrarsi non sull’aspetto esteriore ma sulla “persona segreta del cuore” (1Pt 3:3, 4; confronta Pr 31:30).

assennato O “di mente sana”, “di buon senso”. Secondo un lessico, i termini greci solitamente resi “assennato” e “assennatezza” si riferiscono all’essere “prudenti, riflessivi ed equilibrati”. Una persona assennata mostra autocontrollo ed evita di emettere giudizi affrettati.

devote a Dio Nell’originale compare theosèbeia, termine composto dalla parola theòs (“Dio”) e dalla radice seb- (che ha il senso di devozione, venerazione). Descrive un profondo rispetto per Dio e trasmette il senso di religiosità e riverenza verso di lui e la vera adorazione. Theosèbeia è affine a eusèbeia (anch’esso reso “devozione a Dio”), ma contiene esplicitamente il termine tradotto “Dio”. (Vedi approfondimenti a 1Tm 2:2; 4:7.) Compare solo qui nelle Scritture Greche Cristiane, ma lo si trova anche nella Settanta, ad esempio in Gen 20:11 e Gb 28:28, dove il testo ebraico originale legge “timore di Dio” o “timore di Geova”, con il senso di riverenza e profondo rispetto per lui. Qui in 1Tm 2:10 alcune traduzioni delle Scritture Greche Cristiane in ebraico rendono il termine con “timore di Geova”. Comunque, il Comitato di Traduzione della Bibbia del Nuovo Mondo ha ritenuto che non ci fossero sufficienti ragioni a sostegno del ripristino del nome divino nel testo principale di questo versetto. (Per altre ragioni prese in considerazione nel valutare se ripristinare il nome divino in altri versetti, vedi App. C; confronta approfondimento a Ro 10:12.)

Signore L’identità di colui che in questo versetto è chiamato “Signore” (Kỳrios) non può essere stabilita con certezza dal contesto. Anche i biblisti non sono concordi nel dire se Paolo con “Signore” intendesse Gesù Cristo o Geova. Ro 10:9 si riferisce chiaramente a Gesù Cristo chiamandolo “Signore”, e anche la citazione di Isa 28:16 che si trova in Ro 10:11 è riferita a lui. Quindi se il “Signore” di Ro 10:12 è da collegarsi direttamente al “lui” di Ro 10:11, allora il “Signore” a cui si fa riferimento è Gesù Cristo. D’altra parte, in Ro 10:9 si parla di esercitare fede con il cuore nel fatto che “Dio lo ha risuscitato dai morti”. Inoltre Ro 10:13, citazione di Gle 2:32, dice: “Chiunque invocherà il nome di Geova sarà salvato”. Quindi se il “Signore” di Ro 10:12 è lo stesso di quello di Ro 10:13, allora si tratta di Geova Dio. Il concetto sarebbe pertanto lo stesso di quello espresso in Ro 3:29: esiste un solo Dio al di sopra degli ebrei e dei non ebrei. Questo è un esempio di come il Comitato di Traduzione della Bibbia del Nuovo Mondo abbia esaminato il contesto di ogni occorrenza del termine Kỳrios per determinare dove ripristinare il nome divino. Se il ripristino del nome divino non è supportato con chiarezza dal contesto o da richiami alle Scritture Ebraiche, il comitato ha mantenuto la resa “Signore” per non oltrepassare i limiti del traduttore sconfinando nel campo dell’interpretazione del testo. (Vedi App. C1.)

devozione a Dio Il termine greco eusèbeia trasmette l’idea di profonda riverenza e rispetto che un cristiano esprime a Dio servendolo lealmente e ubbidendogli in modo completo. Ha un significato ampio, infatti fa anche pensare a quell’amore leale o a quell’attaccamento verso Dio che spinge una persona a cercare di fare ciò che piace a lui. Un lessico riassume così il significato generale di questo termine: “vivere come Dio vuole che viviamo”. Paolo fa anche capire che la devozione a Dio non è una caratteristica innata. È per questo motivo che esorta Timoteo a darsi da fare per rafforzare questa qualità, esercitandosi, o allenandosi, come fa un atleta. Poco prima nella lettera, Paolo gli ha ricordato che Gesù Cristo ha lasciato l’esempio più incisivo di devozione a Dio. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:16.)

devozione a Dio O “santa devozione”. Il termine greco usato qui, eusèbeia, fa riferimento a un senso di riverenza e di profondo rispetto nei confronti di Dio; per questo motivo la parola “Dio”, anche se non compare nel termine originale, è stata esplicitata. (Per una trattazione del termine greco reso “devozione a Dio”, vedi approfondimento a 1Tm 4:7.) Questo stesso termine a volte viene usato anche nella Settanta. Per esempio compare in Isa 11:2 e 33:6, dove il testo ebraico usa l’espressione “timore di Geova”, che si riferisce ugualmente a profondo rispetto per Geova Dio. Quando nel V secolo fu realizzata la Pescitta, traduzione della Bibbia in siriaco, in 1Tm 2:2 il termine greco eusèbeia fu reso “riverenza verso Dio”, con l’esplicitazione della parola “Dio”. Sulla stessa falsariga, alcune successive traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane hanno reso eusèbeia con “timore di Geova” sia in questo versetto sia in altri dove compare il termine (1Tm 3:16; 4:7, 8; 6:3, 6, 11). Comunque, il Comitato di Traduzione della Bibbia del Nuovo Mondo ha ritenuto che non ci fossero sufficienti ragioni a sostegno del ripristino del nome divino nel testo principale di questo versetto. (Per altre ragioni prese in considerazione nel valutare se ripristinare il nome divino in altri versetti, vedi App. C; confronta approfondimento a Ro 10:12.)

La donna impari Qui Paolo respinge l’idea comune tra molti capi religiosi ebrei del suo tempo secondo cui le donne non dovevano studiare le Scritture. Lui sapeva che questa mentalità non trovava riscontro nelle Scritture Ebraiche, e nemmeno Gesù la pensava in quel modo. Anzi, Gesù insegnò apertamente alle donne (Gsè 8:35; Lu 10:38-42; Gv 4:7-27). Sotto ispirazione, comunque, Paolo afferma che nell’ambito della congregazione una donna dovrebbe imparare in silenzio; l’espressione greca potrebbe essere resa anche “quietamente”. Questo suo consiglio ne richiama un altro che aveva già dato alla congregazione di Corinto, dove forse alcune donne esercitavano un’influenza divisiva. (Vedi approfondimento a 1Co 14:34.)

con piena sottomissione Con questo consiglio ispirato Paolo invita le donne cristiane ad accettare e sostenere quanto Geova ha stabilito in materia di autorità all’interno della congregazione. Subito dopo, nel v. 12, spiega che Dio ha assegnato agli uomini la responsabilità di insegnare nella congregazione. Paolo non associa il concetto di sottomissione solo ed esclusivamente alle donne. Ad esempio, dice che Gesù “si sottoporrà” a Geova (1Co 15:27, 28) e che “la congregazione è sottomessa al Cristo” (Ef 5:24). Inoltre esorta tutti i cristiani, sia uomini che donne, a essere sottomessi a coloro che guidano la congregazione (Eb 13:17).

le donne stiano in silenzio nelle congregazioni Paolo ha già dato lo stesso comando di rimanere in silenzio a coloro che parlavano in altre lingue senza avere un interprete e a chi profetizzava mentre qualcun altro stava ricevendo una rivelazione. Ora dà lo stesso comando alle donne che durante le adunanze parlavano al momento sbagliato (1Co 14:28, 30, 34). Forse alcune interrompevano o contestavano gli uomini che stavano insegnando. Paolo incoraggia queste donne che hanno domande o dubbi a chiedere spiegazioni “al marito, a casa”, piuttosto che interrompere l’adunanza (1Co 14:35). Inoltre qui Paolo, sotto ispirazione, sta confermando il principio scritturale secondo cui Dio ha stabilito che siano gli uomini a ricoprire incarichi di responsabilità nel suo popolo (1Tm 2:12). Comunque non ci sono dubbi che l’apostolo stimasse molto le donne in quanto ministre e predicatrici della buona notizia (Ro 16:1, 2; Flp 4:2, 3). Le sue indicazioni ispirate non escludono le donne dalla partecipazione alle adunanze di congregazione (1Co 11:5; Eb 10:23-25).

prima fu formato Adamo, poi Eva Paolo qui menziona l’ordine in cui l’uomo e la donna furono creati per aiutare a capire perché le donne cristiane non hanno il permesso “di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo” nella congregazione (1Tm 2:12; Gen 2:7, 18-22). Paolo intende dire non che Geova abbia fatto Adamo meglio di Eva, ma semplicemente che lo creò prima di lei. In questo modo Dio gli assegnò un ruolo, quello di capofamiglia. Successivamente creò Eva, e anche a lei diede un ruolo d’onore, quello di essere “un aiuto, un complemento” per suo marito (Gen 2:18). Paolo lascia intendere che il principio dell’autorità faceva parte del proposito originale di Geova per gli esseri umani e che era valido già prima che questi peccassero e diventassero imperfetti (1Co 11:3). Dal suo ragionamento si evince che anche all’interno della congregazione cristiana Dio ha dato a uomini e donne ruoli diversi.

perché tutti hanno peccato... In questo versetto Paolo spiega una verità fondamentale, cioè il modo in cui il peccato e la morte si sono estesi a tutti gli esseri umani. Questa spiegazione è in armonia con il tema principale del libro di Romani: Dio è imparziale e offre la possibilità della salvezza a tutti gli esseri umani peccatori che hanno fede nel sacrificio di riscatto di Gesù. Paolo spiega che sia gli ebrei sia i non ebrei sono peccatori e, se vogliono essere considerati giusti da Geova Dio, devono esercitare fede in lui e nel sacrificio di suo Figlio (Ro 1:16, 17). La parola mondo qui si riferisce all’umanità. (Vedi approfondimento a Gv 3:16.) I puntini alla fine del versetto (in alcune edizioni critiche del testo greco compare una lineetta) segnalano un’interruzione nel ragionamento di Paolo, che a quanto pare viene ripreso nel v. 18. Sembra quindi che nel v. 12 Paolo introduca un paragone con Adamo (“come per mezzo di un solo uomo” tutti sono diventati peccatori) e che poi concluda il suo ragionamento nel v. 18 (“così grazie a un solo atto di giustificazione uomini di ogni tipo vengono dichiarati giusti per la vita”) e nel v. 19. Grazie all’integrità che Gesù ha dimostrato per tutta la vita e che ha avuto la massima espressione alla sua morte, molti possono essere dichiarati giusti ed essere salvati in virtù della loro fede.

Inoltre non fu Adamo a essere ingannato Qui sotto ispirazione Paolo fornisce un dettaglio che non viene detto espressamente nel racconto della Genesi: Adamo fece la sua scelta in maniera del tutto consapevole. Sapeva, ad esempio, che il serpente aveva mentito a Eva quando le aveva detto che non sarebbe morta se avesse disubbidito a Dio (Gen 3:4-6, 12); piuttosto che rivolgersi a Geova, però, seguì Eva nel peccato. In questo modo perciò venne meno al ruolo di capofamiglia datogli da Dio. La responsabilità che grava su di lui è grande, infatti Paolo lo definì il “solo uomo” per mezzo del quale “il peccato è entrato nel mondo”. (Vedi approfondimento a Ro 5:12.)

fu la donna a essere completamente ingannata, cadendo nella trasgressione La parola originale resa “trasgressione” fa pensare a qualcuno che oltrepassa certi limiti. Eva conosceva benissimo il comando di Dio relativo all’albero della conoscenza del bene e del male; lo aveva persino ripetuto al serpente (Gen 3:3). Paolo dice che lei fu “completamente ingannata” e credette alle menzogne del serpente. Eva stessa infatti disse: “Il serpente mi ha ingannato, e così ho mangiato” (Gen 3:13). Ma non per questo era innocente, in quanto scelse deliberatamente di ribellarsi a Geova. È da notare che Eva prese quella decisione in maniera autonoma, senza ricercare la guida del suo capofamiglia. Inoltre mancò di assolvere il suo ruolo di aiuto leale per il marito; anzi, usò a sproposito la sua influenza su Adamo, spingendolo a peccare (Gen 2:18; 3:1-6, 12). Paolo si avvale dell’esempio di Eva per dimostrare che i limiti che Dio stabilisce si rivelano una benedizione e una protezione.

lei sarà salvaguardata per mezzo del parto Una donna che aveva figli, che li educava e che si prendeva cura della famiglia poteva essere “salvaguardata” perché tenersi occupata con queste cose le avrebbe impedito di diventare pettegola o invadente immischiandosi negli affari altrui (1Tm 5:11-15). Il duro lavoro svolto per la sua famiglia e qualità come “fede”, “amore” e “santità” le avrebbero permesso di rimanere vicina a Geova.

buon senso O “sanità di mente”, “assennatezza”. (Vedi approfondimento a 1Tm 3:2.)

assennato O “di mente sana”, “di buon senso”. Secondo un lessico, i termini greci solitamente resi “assennato” e “assennatezza” si riferiscono all’essere “prudenti, riflessivi ed equilibrati”. Una persona assennata mostra autocontrollo ed evita di emettere giudizi affrettati.

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Acconciature femminili in epoca romana
Acconciature femminili in epoca romana

Nel I secolo le donne di solito portavano i capelli lunghi; spesso li pettinavano creando una riga al centro della testa e poi li raccoglievano in uno chignon (1). Alcune si acconciavano in modi più elaborati, con trecce e riccioli (2). Per arricciare i capelli si usava il calamistro (calamistrum, il moderno arricciacapelli), un ferro vuoto all’interno che veniva scaldato sui carboni. Le donne agiate avevano acconciature più ricercate, di cui comunemente si occupava una schiava. Per questo tipo di acconciature si utilizzavano forcine, pettini, nastri e retine. Gli apostoli Paolo e Pietro esortarono le donne cristiane a non attirare l’attenzione su sé stesse con acconciature stravaganti. Le incoraggiarono piuttosto ad “[adornarsi] con modestia” e a mostrare “uno spirito quieto e mite”, caratteristiche che hanno “grande valore agli occhi di Dio” (1Tm 2:9; 1Pt 3:3, 4).