Vangelo secondo Giovanni 1:1-51

1  In principio era la Parola,+ e la Parola era con Dio,+ e la Parola era un dio.+  Egli era in principio con Dio.+  Tutte le cose vennero all’esistenza tramite lui:+ neppure una cosa venne all’esistenza senza di lui. Ciò che venne all’esistenza  tramite lui era vita, e la vita era la luce degli uomini.*+  E la luce risplende nelle tenebre,+ e le tenebre non l’hanno sconfitta.  Venne un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni.+  Venne come testimone, per rendere testimonianza riguardo alla luce,+ affinché persone di ogni tipo credessero per mezzo suo.  Lui non era quella luce,+ ma doveva rendere testimonianza riguardo a quella luce.+  La vera luce che illumina ogni tipo di uomini stava per venire nel mondo.+ 10  Egli era nel mondo,+ e il mondo venne all’esistenza tramite lui;+ eppure il mondo non l’ha riconosciuto.* 11  È venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno accolto.+ 12  Comunque, a tutti quelli che l’hanno accolto ha concesso il diritto di diventare figli di Dio+ perché hanno esercitato fede nel suo nome.+ 13  E questi non sono stati generati né dal sangue né dalla volontà della carne né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio.+ 14  E la Parola è diventata carne+ e ha vissuto fra noi, e noi abbiamo visto la sua gloria, la gloria che un figlio unigenito+ riceve da suo padre; e in lui abbondavano favore divino e verità.+ 15  (Giovanni gli rese testimonianza ed esclamò: “Era di lui che dicevo: ‘Colui che viene dopo di me è andato davanti a me, perché esisteva prima di me’!”+) 16  Infatti è della sua abbondanza che abbiamo tutti beneficiato — immeritata bontà su immeritata bontà — 17  perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,+ mentre l’immeritata bontà+ e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo.+ 18  Nessun uomo ha mai visto Dio;+ l’unigenito dio+ che sta accanto al Padre+ è colui che lo ha fatto conoscere.+ 19  Questa è la testimonianza che Giovanni rese quando da Gerusalemme i giudei mandarono sacerdoti e leviti a chiedergli: “Chi sei?”+ 20  Lui ammise apertamente:* “Non sono io il Cristo”.+ 21  Loro gli domandarono: “Allora chi sei? Sei Elìa?”+ Lui replicò: “Non lo sono”.+ “Sei il Profeta?”+ E lui: “No”. 22  Gli dissero dunque: “Dicci chi sei, perché dobbiamo dare una risposta a quelli che ci hanno mandato. Cosa dici di te stesso?” 23  Lui rispose: “Sono la voce di qualcuno che grida nel deserto: ‘Rendete diritta la via di Geova!’,+ come ha detto il profeta Isaia”.+ 24  Quelli che erano stati mandati, i quali venivano da parte dei farisei, 25  ribatterono domandandogli: “Allora, se non sei né il Cristo, né Elìa, né il Profeta, perché battezzi?” 26  Giovanni rispose loro: “Io battezzo in acqua. In mezzo a voi c’è uno che non conoscete, 27  colui che viene dopo di me, al quale non sono degno di sciogliere i lacci dei sandali”.+ 28  Queste cose avvennero a Betània al di là del Giordano, dove Giovanni battezzava.+ 29  Il giorno successivo, Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: “Ecco l’Agnello+ di Dio che toglie il peccato+ del mondo!+ 30  È di lui che dicevo: ‘Dopo di me viene un uomo che è andato davanti a me, perché esisteva prima di me’.+ 31  Nemmeno io lo conoscevo, ma è per questo che sono venuto a battezzare in acqua, perché lui fosse fatto conoscere a Israele”.+ 32  E Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo spirito scendere dal cielo come una colomba e rimanere sopra di lui.+ 33  Nemmeno io lo conoscevo, ma Colui che mi ha mandato a battezzare in acqua mi aveva detto: ‘Quello su cui vedrai scendere e rimanere lo spirito+ è colui che battezza nello spirito santo’.+ 34  E io ho visto e ho reso testimonianza che lui è il Figlio di Dio”.+ 35  Il giorno dopo ancora, Giovanni si trovava di nuovo là con due suoi discepoli, 36  e guardando Gesù che passava disse: “Ecco l’Agnello+ di Dio!” 37  Sentendolo parlare così, i due discepoli seguirono Gesù. 38  Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, chiese loro: “Cosa cercate?” Loro gli domandarono: “Rabbi (che, tradotto, significa “maestro”), dove abiti?” 39  Lui disse loro: “Venite e vedrete”. Perciò andarono a vedere dove abitava, e quel giorno rimasero con lui; era circa la 10ª ora. 40  Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e che avevano seguito Gesù era Andrea,+ fratello di Simon Pietro. 41  Per prima cosa Andrea andò a cercare suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia”+ (che, tradotto, significa “Cristo”+). 42  E lo portò da Gesù, il quale lo guardò e gli disse: “Tu sei Simone,+ il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa” (che si traduce “Pietro”+). 43  Il giorno seguente, Gesù decise di partire per la Galilea. Trovò Filippo+ e gli disse: “Sii mio discepolo”. 44  Filippo, che era di Betsàida, la città di Andrea e Pietro, 45  trovò Natanaèle+ e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale scrissero Mosè, nella Legge, e i Profeti:+ Gesù, il figlio di Giuseppe,+ di Nazaret”. 46  Ma Natanaèle replicò: “Può venire qualcosa di buono da Nazaret?”+ Filippo gli rispose: “Vieni e vedi”. 47  Gesù vide Natanaèle venirgli incontro e disse di lui: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è inganno!”+ 48  Natanaèle gli chiese: “Come fai a conoscermi?” Gesù gli rispose: “Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, io ti ho visto”. 49  Natanaèle esclamò: “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re d’Israele!”+ 50  A sua volta Gesù gli disse: “Credi solo perché ti ho detto di averti visto sotto il fico? Vedrai cose più grandi di queste”. 51  E aggiunse: “In verità, sì, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere dal Figlio dell’uomo”.+

Note in calce

O “umanità”, “genere umano”.
O “conosciuto”.
Lett. “ammise e non negò, e ammise”.

Approfondimenti

Giovanni Qui dove si menziona il padre dell’apostolo Pietro, alcuni manoscritti antichi riportano il nome Giovanni, mentre altri il nome Giona. In Mt 16:17 si legge che Gesù, rivolgendosi a Pietro, lo chiamò “Simone figlio di Giona”. (Vedi approfondimento a Mt 16:17.) Secondo alcuni studiosi, le forme greche dei nomi Giovanni e Giona potrebbero essere grafie diverse dello stesso nome ebraico.

Giovanni Qui dove si menziona il padre dell’apostolo Pietro, alcuni manoscritti antichi riportano il nome Giovanni, mentre altri il nome Giona. In Mt 16:17 si legge che Gesù, rivolgendosi a Pietro, lo chiamò “Simone figlio di Giona”. (Vedi approfondimento a Mt 16:17.) Secondo alcuni studiosi, le forme greche dei nomi Giovanni e Giona potrebbero essere grafie diverse dello stesso nome ebraico.

Giovanni Cioè Giovanni Battista. Lo scrittore di questo Vangelo, l’apostolo Giovanni, fa riferimento a Giovanni Battista 19 volte, ma a differenza degli altri evangelisti, non usa mai la specifica “Battista” o “il Battezzatore”. (Vedi approfondimenti a Mt 3:1; Mr 1:4.) Mentre nel caso di tre donne di nome Maria l’apostolo Giovanni fornisce informazioni per permettere di identificarle (Gv 11:1, 2; 19:25; 20:1), nel caso di Giovanni Battista non sente la necessità di aggiungere specifiche, dato che non menziona mai sé stesso per nome e nessuno avrebbe trovato difficile capire di quale Giovanni si stesse parlando. Questa è un’altra conferma del fatto che fu l’apostolo Giovanni a scrivere questo Vangelo. (Vedi “Introduzione a Giovanni” e approfondimento a Gv titolo.)

quello a cui Gesù voleva particolarmente bene O “quello che Gesù amava”. Questa è la prima di cinque occorrenze in cui si menziona un discepolo a cui Gesù “voleva particolarmente bene” (Gv 19:26; 20:2; 21:7, 20). In genere si ritiene che questo discepolo sia l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Uno dei motivi che lo suggeriscono è che l’apostolo Giovanni non è mai chiamato per nome in questo Vangelo; l’unica menzione diretta che se ne fa è in Gv 21:2, dove si fa riferimento ai “figli di Zebedeo”. Un’altra indicazione si trova in Gv 21:20-24, dove si legge che “il discepolo a cui Gesù voleva particolarmente bene” era lo scrittore di questo Vangelo. Inoltre, dell’apostolo in questione Gesù disse a Pietro: “Se è mia volontà che lui rimanga finché non verrò, a te che importa?” Queste parole suggeriscono l’idea che la persona a cui si fa riferimento sarebbe vissuta molto più a lungo di Pietro e degli altri apostoli, il che si può ben dire dell’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimenti a Gv titolo; Gv 1:6; 21:20.)

Giovanni Equivalente italiano del nome ebraico Ieoanan (o Ioanan), che significa “Geova ha mostrato favore”, “Geova è stato benigno”. Lo scrittore di questo Vangelo non si identifica per nome. Comunque, già tra il II e il III secolo il libro era comunemente attribuito all’apostolo Giovanni. In questo Vangelo tutte le occorrenze del nome Giovanni fanno riferimento a Giovanni Battista, a eccezione di 1:42 e 21:15-17, dove Gesù usa il nome Giovanni in riferimento al padre di Pietro. (Vedi approfondimenti a Gv 1:42 e 21:15.) Anche se l’apostolo Giovanni non è mai chiamato per nome, si fa menzione di lui insieme a suo fratello Giacomo con l’espressione “i figli di Zebedeo” (Gv 21:2; Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10; vedi approfondimento a Gv 1:6). Negli ultimi versetti di questo Vangelo, lo scrittore definisce sé stesso “il discepolo a cui Gesù voleva particolarmente bene” (Gv 21:20-24); ci sono buone ragioni per attribuire questa descrizione all’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimento a Gv 13:23.)

Vangelo secondo Giovanni Nessuno degli evangelisti si identifica come scrittore del proprio racconto, e a quanto pare le intestazioni dei Vangeli non facevano parte del testo originale. In alcuni manoscritti del Vangelo di Giovanni compare l’intestazione Euaggèlion katà Ioànnen (“Buona notizia [o “Vangelo”] secondo Giovanni”), mentre in altri c’è quella più breve Katà Ioànnen (“Secondo Giovanni”). Non si sa esattamente quando furono aggiunte o quando si iniziò a usarle. Alcuni ipotizzano il II secolo, dato che i primi manoscritti a nostra disposizione che contengono l’intestazione lunga sono datati alla fine del II secolo o all’inizio del III. Secondo alcuni studiosi, l’incipit del Vangelo di Marco (“Principio della buona notizia riguardo a Gesù Cristo, il Figlio di Dio”) potrebbe spiegare perché è stato adottato il termine “vangelo” (lett. “buona notizia”) per definire questi racconti. Le intestazioni contenenti il nome dello scrittore potrebbero essere state introdotte per motivi di praticità; permettevano infatti di identificare con facilità i vari libri.

fin dall’inizio Questa espressione non si riferisce alla nascita di Giuda o al momento in cui fu scelto come apostolo, cosa che avvenne dopo che Gesù ebbe pregato un’intera notte (Lu 6:12-16). Si riferisce piuttosto a quando Giuda iniziò a comportarsi slealmente, cambiamento che Gesù colse subito (Gv 2:24, 25; Ri 1:1; 2:23; vedi approfondimenti a Gv 6:70; 13:11). Le azioni di Giuda furono quindi premeditate e pianificate, non il frutto di un cambiamento improvviso. Nelle Scritture Greche Cristiane il termine greco archè (qui tradotto “inizio”) può avere vari significati in base al contesto. Ad esempio, in 2Pt 3:4, dove viene tradotto “principio”, si riferisce all’inizio della creazione. Ma nella maggioranza dei casi viene usato in un senso più specifico. Un esempio si trova in queste parole pronunciate da Pietro: “Lo spirito santo scese su di loro [i non ebrei] come in principio era sceso su di noi” (At 11:15). Con l’espressione “in principio” non si stava riferendo al momento della sua nascita o al momento in cui era stato scelto come apostolo, ma al giorno della Pentecoste del 33; quello fu l’inizio del versamento dello spirito santo con un preciso scopo (At 2:1-4). In Lu 1:2; Gv 15:27; 1Gv 2:7 si possono trovare altre occorrenze in cui il valore da attribuire all’espressione “dall’inizio” è determinato dal contesto.

dèi O “simili a dèi”. Qui Gesù cita Sl 82:6, dove il termine ebraico ʼelohìm (“dèi”) si riferisce a uomini, giudici d’Israele. Quegli uomini erano “dèi” in quanto rappresentanti e portavoce di Dio. Mosè ricevette un incarico simile quando gli fu detto che doveva agire “in veste di Dio” per Aronne e per il faraone (Eso 4:16; nt.; 7:1; nt.).

principio Nelle Scritture il significato del termine “principio” dipende dal contesto. Qui il termine greco archè non può riferirsi al “principio” di Dio, il Creatore, in quanto egli è eterno, senza principio (Sl 90:2). Deve perciò riferirsi al tempo in cui Dio iniziò a creare. La prima opera creativa di Dio fu definita la Parola, espressione che designa l’essere celeste che poi diventò Gesù (Gv 1:14-17). Quindi Gesù è l’unico che può giustamente essere chiamato “primogenito di tutta la creazione” (Col 1:15). Lui fu “il principio della creazione di Dio” (Ri 3:14), per cui esisteva prima che venissero creati il resto delle creature spirituali e l’universo fisico. Anzi, “tramite lui sono state create tutte le altre cose nei cieli e sulla terra” (Col 1:16; per altri esempi di come è usato il termine “principio”, vedi approfondimento a Gv 6:64).

la Parola O “il Logos”, “il Verbo”. In greco ho lògos. L’espressione originale, qui usata come titolo, compare anche in Gv 1:14 e Ri 19:13. Giovanni identifica così colui al quale spetta questo titolo, cioè Gesù. Il titolo designa Gesù durante la sua esistenza spirituale preumana, nel corso del suo ministero sulla terra come uomo perfetto e dopo il suo innalzamento al cielo. Gesù servì come portavoce di Dio per trasmettere informazioni e istruzioni agli altri figli spirituali e agli esseri umani. È quindi ragionevole pensare che, prima che Gesù venisse sulla terra, Geova in molte occasioni abbia comunicato con gli esseri umani per mezzo della Parola quale suo portavoce angelico (Gen 16:7-11; 22:11; 31:11; Eso 3:2-5; Gdc 2:1-4; 6:11, 12; 13:3).

con Lett. “verso”. Qui la preposizione pròs denota una vicinanza intima, una relazione profonda, il che implica che si sta parlando di persone diverse, in questo caso la Parola e il solo vero Dio.

la Parola era un dio O “la Parola era divina [o “simile a un dio”]”. Nel menzionare “la Parola” (in greco ho lògos; vedi l’approfondimento la Parola in questo versetto), Giovanni ne descrive la qualità o la natura. Un motivo per cui Gesù Cristo, cioè la Parola, può essere definito “un dio”, “simile a un dio” o “un essere divino” è la posizione di preminenza che ha in quanto Figlio primogenito di Dio, colui tramite il quale Dio creò tutte le altre cose. Molti traduttori preferiscono la resa “la Parola era Dio”, identificando “la Parola” con l’Iddio Onnipotente. Ad ogni modo, ci sono valide ragioni per ritenere che Giovanni non intendeva dire che “la Parola” fosse l’Iddio Onnipotente. Innanzitutto, sia la frase che precede sia quella che segue dicono chiaramente che “la Parola” era “con Dio”. Inoltre, anche se nei vv. 1-2 la parola greca theòs ricorre tre volte, la prima e la terza volta compare con l’articolo determinativo, mentre la seconda volta è senza articolo. Molti studiosi concordano nel dire che l’assenza dell’articolo determinativo nella seconda occorrenza ha una sua valenza. In questo contesto, quando la parola theòs ha l’articolo si riferisce all’Iddio Onnipotente; quando invece non ha l’articolo, con questa costruzione grammaticale assume un valore qualitativo, nel senso che descrive una caratteristica della Parola. Per tale motivo, varie versioni bibliche in inglese, francese e tedesco traducono il testo in modo simile alla Traduzione del Nuovo Mondo, trasmettendo l’idea che “la Parola” era “un dio”, “divina”, “di natura divina”, “simile a un dio” o “un essere divino”. (A sostegno di questo, antiche traduzioni del Vangelo di Giovanni nei dialetti copto sahidico e copto bohairico, realizzate probabilmente tra il III e il IV secolo, traducono la prima occorrenza di theòs in Gv 1:1 in modo diverso rispetto alla seconda occorrenza.) Queste rese sottolineano una qualità della Parola; indicano che la sua natura era come quella di Dio, ma non indicano una perfetta corrispondenza tra lui e suo Padre, l’Iddio Onnipotente. In armonia con questo versetto, Col 2:9 descrive Cristo dicendo che in lui risiede “tutta la pienezza dell’essenza divina”. E, stando a 2Pt 1:4, anche coloro che sono eredi con Cristo diventano “partecipi della natura divina”. In più, nella Settanta la parola greca theòs è il consueto traducente dei termini ebraici resi “Dio”, ʼel ed ʼelohìm, che si ritiene significhino fondamentalmente “uno potente”, “uno forte”. Queste parole ebraiche sono usate in riferimento sia all’Iddio Onnipotente che ad altri dèi e a esseri umani. (Vedi approfondimento a Gv 10:34.) Descrivere la Parola come “un dio”, o “un potente”, sembra coerente anche con la profezia di Isa 9:6, dove si legge che il Messia sarebbe stato chiamato “Dio potente” (non “Dio Onnipotente”) e che sarebbe stato il “Padre eterno” di tutti quelli che avrebbero avuto il privilegio di essere suoi sudditi. Ma sarebbe stato lo zelo di suo Padre, “Geova degli eserciti”, a realizzare tutto questo (Isa 9:7).

Ciò che venne all’esistenza I più antichi manoscritti in greco non contengono punteggiatura nei vv. 3-4. La Traduzione del Nuovo Mondo collega la parte finale del v. 3 al v. 4, adottando una punteggiatura conforme al testo greco delle edizioni critiche di Westcott e Hort, dell’Alleanza Biblica Universale e di Nestle e Aland. In questo modo si trasmette l’idea che la vita e la luce vennero all’esistenza per mezzo della Parola (Col 1:15, 16). Alcune traduzioni si basano su un’altra interpretazione del testo greco e collegano l’ultima parte del v. 3 alle parole precedenti, trasmettendo l’idea che “senza di lui non venne all’esistenza neppure una cosa di ciò che è venuto all’esistenza”. Comunque, sono molti gli studiosi che concordano con la scelta della Traduzione del Nuovo Mondo.

la Parola O “il Logos”, “il Verbo”. In greco ho lògos. L’espressione originale, qui usata come titolo, compare anche in Gv 1:14 e Ri 19:13. Giovanni identifica così colui al quale spetta questo titolo, cioè Gesù. Il titolo designa Gesù durante la sua esistenza spirituale preumana, nel corso del suo ministero sulla terra come uomo perfetto e dopo il suo innalzamento al cielo. Gesù servì come portavoce di Dio per trasmettere informazioni e istruzioni agli altri figli spirituali e agli esseri umani. È quindi ragionevole pensare che, prima che Gesù venisse sulla terra, Geova in molte occasioni abbia comunicato con gli esseri umani per mezzo della Parola quale suo portavoce angelico (Gen 16:7-11; 22:11; 31:11; Eso 3:2-5; Gdc 2:1-4; 6:11, 12; 13:3).

lui Cioè la Parola, o il Logos. (Vedi approfondimento a Gv 1:1.)

vita [...] luce Questi due temi sono molto presenti nel racconto ispirato di Giovanni. Dio è la Fonte della vita, e tramite Gesù, la Parola, ogni altra forma di vita “venne all’esistenza” (Gv 1:3). È in questo senso che la vita venne tramite Gesù Cristo. Sempre tramite lui, Dio ha offerto la possibilità di vivere per sempre agli esseri umani soggetti al peccato e alla morte. In questo senso Gesù può essere identificato con la vita che diventò la luce degli uomini. In Gv 1:9 la Parola viene descritta come “la vera luce che illumina ogni tipo di uomini”. Gli esseri umani che seguono Gesù, “la luce del mondo”, avranno “la luce della vita” (Gv 8:12). La Parola è per volere di Dio “colui che conduce alla vita”, illuminando il cammino dell’umanità verso la vita (At 3:15).

Giovanni Equivalente italiano del nome ebraico Ieoanan (o Ioanan), che significa “Geova ha mostrato favore”, “Geova è stato benigno”.

Battista O “colui che immerge”, “colui che tuffa”. In Mr 1:4; 6:14, 24 viene chiamato “il Battezzatore”. Evidentemente Giovanni era chiamato con questi appellativi perché era conosciuto per il fatto che battezzava le persone immergendole in acqua. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio parla di “Giovanni soprannominato Battista” (Antichità giudaiche, XVIII, 116 [v, 2], a cura di L. Moraldi, UTET, Torino, 2006).

il Battezzatore O “colui che immerge”, “colui che tuffa”. Il participio greco che qui e in Mr 6:14, 24 è reso “Battezzatore” potrebbe essere tradotto anche “colui che battezza”. La forma è leggermente diversa dal sostantivo greco Baptistès, che è reso “Battista” in Mr 6:25; 8:28 e nei libri di Matteo e Luca. I due appellativi, “il Battezzatore” e “Battista”, sono usati scambievolmente in Mr 6:24, 25. (Vedi approfondimento a Mt 3:1.)

Giovanni Equivalente italiano del nome ebraico Ieoanan (o Ioanan), che significa “Geova ha mostrato favore”, “Geova è stato benigno”. Lo scrittore di questo Vangelo non si identifica per nome. Comunque, già tra il II e il III secolo il libro era comunemente attribuito all’apostolo Giovanni. In questo Vangelo tutte le occorrenze del nome Giovanni fanno riferimento a Giovanni Battista, a eccezione di 1:42 e 21:15-17, dove Gesù usa il nome Giovanni in riferimento al padre di Pietro. (Vedi approfondimenti a Gv 1:42 e 21:15.) Anche se l’apostolo Giovanni non è mai chiamato per nome, si fa menzione di lui insieme a suo fratello Giacomo con l’espressione “i figli di Zebedeo” (Gv 21:2; Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10; vedi approfondimento a Gv 1:6). Negli ultimi versetti di questo Vangelo, lo scrittore definisce sé stesso “il discepolo a cui Gesù voleva particolarmente bene” (Gv 21:20-24); ci sono buone ragioni per attribuire questa descrizione all’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimento a Gv 13:23.)

mandato da Dio O “incaricato da Dio”. Il compito che Giovanni Battista aveva ricevuto da Dio (Lu 3:2) richiedeva che servisse come predicatore, o messaggero. Giovanni non solo annunciò agli ebrei che andavano da lui l’arrivo del Messia e del Regno di Dio, ma li incoraggiò anche a pentirsi dei loro peccati (Mt 3:1-3, 11, 12; Mr 1:1-4; Lu 3:7-9). Giovanni Battista servì come profeta, insegnante (con dei discepoli) ed evangelizzatore (Lu 1:76, 77; 3:18; 11:1; Gv 1:35).

Giovanni Cioè Giovanni Battista. Lo scrittore di questo Vangelo, l’apostolo Giovanni, fa riferimento a Giovanni Battista 19 volte, ma a differenza degli altri evangelisti, non usa mai la specifica “Battista” o “il Battezzatore”. (Vedi approfondimenti a Mt 3:1; Mr 1:4.) Mentre nel caso di tre donne di nome Maria l’apostolo Giovanni fornisce informazioni per permettere di identificarle (Gv 11:1, 2; 19:25; 20:1), nel caso di Giovanni Battista non sente la necessità di aggiungere specifiche, dato che non menziona mai sé stesso per nome e nessuno avrebbe trovato difficile capire di quale Giovanni si stesse parlando. Questa è un’altra conferma del fatto che fu l’apostolo Giovanni a scrivere questo Vangelo. (Vedi “Introduzione a Giovanni” e approfondimento a Gv titolo.)

la testimonianza che Giovanni rese In Gv 1:7, Giovanni Battista viene definito “testimone” (che traduce lo stesso termine greco usato qui, martyrìa), colui che venne per rendere testimonianza riguardo alla luce. Qui in Gv 1:19 martyrìa si riferisce alla dichiarazione, o attestazione, di Giovanni riguardo a Gesù riportata nei versetti che seguono.

come testimone O “per una testimonianza”. Il termine greco qui reso “testimone” (martyrìa) compare nel Vangelo di Giovanni più del doppio delle volte rispetto agli altri tre Vangeli messi insieme. Il verbo affine (martyrèo), in questo versetto tradotto rendere testimonianza, ricorre 39 volte nel Vangelo di Giovanni a fronte delle 2 occorrenze presenti negli altri Vangeli (Mt 23:31; Lu 4:22). Il verbo greco è usato così di frequente in relazione a Giovanni Battista che alcuni ritengono possa essere chiamato “Giovanni il Testimone” (Gv 1:8, 15, 32, 34; 3:26; 5:33; vedi approfondimento a Gv 1:19). Nel Vangelo di Giovanni questo verbo è anche utilizzato di frequente in relazione al ministero di Gesù. Di Gesù viene spesso detto che ‘testimoniò’ (Gv 8:14, 17, 18). Particolarmente degne di nota sono le parole che Gesù rivolse a Ponzio Pilato: “Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza riguardo alla verità” (Gv 18:37). Nella Rivelazione ricevuta da Giovanni, Gesù è definito “il Testimone fedele” e “il testimone fedele e verace” (Ri 1:5; 3:14).

per mezzo suo Cioè per mezzo di Giovanni Battista. (Confronta At 19:4.)

mondo Il termine greco kòsmos qui si riferisce all’umanità. In questo contesto, l’espressione venire nel mondo sembra riferirsi principalmente non alla nascita letterale di Gesù ma al momento in cui ‘venne’ fra gli uomini in occasione del battesimo. Una volta battezzato, Gesù svolse il ministero che gli era stato affidato portando luce nel mondo, all’umanità. (Confronta Gv 3:17, 19; 6:14; 9:39; 10:36; 11:27; 12:46; 1Gv 4:9.)

il mondo venne all’esistenza tramite lui Qui il termine greco kòsmos (“mondo”) si riferisce all’umanità, come si evince dal seguito del versetto: il mondo non l’ha riconosciuto. Questo termine era a volte utilizzato negli scritti secolari in relazione all’universo e al creato in generale; l’apostolo Paolo potrebbe averlo usato con questa accezione quando si rivolse a un uditorio di greci (At 17:24). Comunque, nelle Scritture Greche Cristiane il termine si riferisce generalmente all’umanità o a una sua parte. Anche se Gesù partecipò alla realizzazione di tutte le cose, inclusi i cieli, la terra e tutto ciò che si trova su di essa, questo versetto si concentra sul ruolo che ebbe nel portare all’esistenza l’umanità (Gen 1:26; Gv 1:3; Col 1:15-17).

Figlio dell’uomo O “Figlio di un essere umano”. Questa espressione ricorre un’ottantina di volte nei Vangeli. Gesù la usò in riferimento a sé stesso. Evidentemente voleva sottolineare il fatto che era davvero un essere umano, nato da una donna, e che era il giusto equivalente di Adamo, nella condizione quindi di riscattare l’umanità dal peccato e dalla morte (Ro 5:12, 14, 15). L’espressione indicava inoltre che Gesù era il Messia, o il Cristo (Da 7:13, 14; vedi Glossario).

unico Il termine greco monogenès, di solito tradotto “unigenito”, potrebbe descrivere qualcuno unico nel suo genere, solo, senza pari, il solo all’interno di una categoria. Si usa per definire la relazione tra un figlio o una figlia e i genitori. In questo contesto è usato in riferimento a un figlio unico. Lo stesso termine greco ricorre a proposito di due persone guarite da Gesù: la figlia “unica” di Iairo e il figlio “unico” di un altro uomo (Lu 8:41, 42; 9:38). Nella Settanta, monogenès è utilizzato a proposito della figlia di Iefte, della quale è scritto: “Era la sua unica figlia: oltre a lei, Iefte non aveva nessun altro figlio o figlia” (Gdc 11:34). Negli scritti di Giovanni monogenès ricorre cinque volte in riferimento a Gesù. (Per il significato del termine riferito a Gesù, vedi approfondimenti a Gv 1:14; 3:16.)

unica Il termine greco monogenès, di solito tradotto “unigenito”, potrebbe descrivere qualcuno unico nel suo genere, solo, senza pari, il solo all’interno di una categoria. Si usa per definire la relazione tra un figlio o una figlia e i genitori. In questo contesto è usato in riferimento a una figlia unica. Lo stesso termine greco ricorre a proposito del figlio “unico” di una vedova di Nain e del figlio “unico” di un uomo che Gesù liberò da un demonio (Lu 7:12; 9:38). Nella Settanta, monogenès è utilizzato a proposito della figlia di Iefte, della quale è scritto: “Era la sua unica figlia: oltre a lei, Iefte non aveva nessun altro figlio o figlia” (Gdc 11:34). Negli scritti di Giovanni monogenès ricorre cinque volte in riferimento a Gesù. (Per il significato del termine riferito a Gesù, vedi approfondimenti a Gv 1:14; 3:16.)

unico Il termine greco monogenès, di solito tradotto “unigenito”, potrebbe descrivere qualcuno unico nel suo genere, solo, senza pari, il solo all’interno di una categoria. Si usa per definire la relazione tra un figlio o una figlia e i genitori. In questo contesto è usato in riferimento a un figlio unico. Lo stesso termine greco ricorre a proposito del figlio “unico” di una vedova di Nain e della figlia “unica” di Iairo (Lu 7:12; 8:41, 42). Nella Settanta, monogenès è utilizzato a proposito della figlia di Iefte, della quale è scritto: “Era la sua unica figlia: oltre a lei, Iefte non aveva nessun altro figlio o figlia” (Gdc 11:34). Negli scritti di Giovanni monogenès ricorre cinque volte in riferimento a Gesù. (Per il significato del termine riferito a Gesù, vedi approfondimenti a Gv 1:14; 3:16.)

carne O “un essere umano”. Il termine greco sàrx qui si riferisce a una creatura fisica, un essere vivente fatto di carne. Quando Gesù nacque come uomo, non era più uno spirito; non assunse semplicemente un corpo fisico, come avevano fatto in passato degli angeli (Gen 18:1-3; 19:1; Gsè 5:13-15). Quindi Gesù poté giustamente definire sé stesso “Figlio dell’uomo” (Gv 1:51; 3:14; vedi approfondimento a Mt 8:20).

la Parola è diventata carne Dalla nascita alla morte, Gesù fu in tutto e per tutto un uomo. Gesù spiegò il motivo per cui era diventato carne quando disse: “Il pane che darò è la mia carne, che offrirò per la vita del mondo” (Gv 6:51). Inoltre, solo perché era interamente umano poté provare ciò che provano gli uomini fatti di carne e sangue e diventare così un Sommo Sacerdote compassionevole (Eb 4:15). Gesù non poteva essere umano e allo stesso tempo divino; le Scritture dicono che fu “fatto di poco inferiore agli angeli” (Eb 2:9; Sl 8:4, 5; vedi l’approfondimento carne in questo versetto). Non tutti, comunque, concordavano sul fatto che Gesù fosse venuto nella carne. Per esempio gli gnostici, che erano convinti che si potesse pervenire alla conoscenza (in greco gnòsis) per vie mistiche, avevano fuso la filosofia greca e il misticismo orientale a insegnamenti cristiani apostati. Concepivano tutta la materia come male, e per questo motivo insegnavano che Gesù non era venuto nella carne ma aveva solo dato l’impressione di avere un corpo umano. A quanto pare una prima forma di gnosticismo era assai diffusa alla fine del I secolo; forse fu per questo che Giovanni scrisse specificamente: “La Parola è diventata carne”. Nelle sue lettere Giovanni mise in guardia dal falso insegnamento secondo cui Gesù non era venuto “nella carne” (1Gv 4:2, 3; 2Gv 7).

ha vissuto Lett. “si è attendata”. Per alcuni dire che la Parola “ha vissuto [o “si è attendata”] fra noi” significa che Gesù non era un essere umano vero e proprio, ma un’incarnazione. Comunque, è interessante notare che Pietro usò un sostantivo affine, reso “tenda” o “tabernacolo”, quando parlò del suo corpo fisico come di una dimora temporanea (2Pt 1:13; nt.). Ma Pietro non stava dicendo di essere un’incarnazione, pur sapendo che dopo la sua imminente morte sarebbe stato risuscitato con un corpo spirituale e non fisico (2Pt 1:13-15; vedi anche 1Co 15:35-38, 42-44; 1Gv 3:2).

abbiamo visto la sua gloria Durante la vita e il ministero di Gesù, Giovanni e gli altri apostoli videro una gloria, uno splendore o magnificenza, che avrebbe potuto mostrare soltanto qualcuno che rifletteva alla perfezione le qualità di Geova. Inoltre l’apostolo Giovanni, insieme a Giacomo e Pietro, fu testimone della trasfigurazione di Gesù (Mt 17:1-9; Mr 9:1-9; Lu 9:28-36). È possibile che Giovanni alludesse non solo al fatto che Gesù rispecchiava le qualità di Dio, ma anche alla trasfigurazione che era avvenuta più di 60 anni prima. Questo avvenimento aveva lasciato un’impronta indelebile anche sull’apostolo Pietro, che scrisse le sue lettere circa 30 anni prima che Giovanni scrivesse il suo Vangelo. Pietro si riferì in modo specifico alla trasfigurazione come a una straordinaria conferma delle “parole profetiche” (2Pt 1:17-19).

un figlio unigenito Il termine greco monogenès, di solito tradotto “unigenito”, potrebbe descrivere qualcuno unico nel suo genere, solo, senza pari. Nella Bibbia è usato per definire la relazione tra un figlio o una figlia e i genitori. (Vedi approfondimenti a Lu 7:12; 8:42; 9:38.) Negli scritti dell’apostolo Giovanni questo termine è utilizzato esclusivamente in riferimento a Gesù (Gv 3:16, 18; 1Gv 4:9), ma mai in relazione alla sua nascita o esistenza come essere umano. Giovanni usa il termine per descrivere l’esistenza preumana di Gesù in qualità di Logos, o Parola, colui che “era in principio con Dio”, anche “prima che il mondo esistesse” (Gv 1:1, 2; 17:5, 24). Gesù è “figlio unigenito” in quanto fu Primogenito di Geova e l’unico a essere creato direttamente da lui. Sebbene anche altri esseri spirituali siano chiamati “figli del vero Dio” o “figli di Dio” (Gen 6:2, 4; Gb 1:6; 2:1; 38:4-7), questi furono creati da Geova tramite il suo Figlio primogenito (Col 1:15, 16). In conclusione, il termine monogenès si riferisce sia alla natura di Gesù, in quanto essere unico e incomparabile, sia al fatto che è l’unico generato direttamente ed esclusivamente da Dio (1Gv 5:18).

favore divino O “immeritata bontà”. Il termine greco chàris ricorre più di 150 volte nelle Scritture Greche Cristiane e, a seconda del contesto, può trasmettere diverse sfumature di significato. Quando si riferisce all’immeritata bontà che Dio mostra agli uomini, denota un dono gratuito che Dio fa in modo generoso, senza aspettarsi nulla in cambio. È espressione della sua grande liberalità, nonché della sua bontà e del suo immenso amore. Si tratta di qualcosa di non guadagnato e non meritato da chi riceve, motivato unicamente dalla generosità del donatore (Ro 4:4; 11:6). Il termine non sottolinea necessariamente che chi è oggetto di questa bontà ne sia indegno, motivo per cui anche Gesù può essere oggetto del favore, o bontà, di Dio. In contesti che riguardano Gesù, chàris è appropriatamente reso “favore divino”, come in questo versetto, o “favore” (Lu 2:40, 52). In altri casi ancora, il termine greco è reso “favore” e “generoso dono” (Lu 1:30; At 2:47; 7:46; 1Co 16:3; 2Co 8:19).

in lui abbondavano favore divino e verità “La Parola”, Gesù Cristo, godeva del favore di Dio e diceva sempre la verità. Ma il contesto indica che questa espressione implica molto di più; Geova scelse proprio suo Figlio perché spiegasse e dimostrasse appieno cosa fossero la Sua immeritata bontà e la verità (Gv 1:16, 17). Gesù manifestò in modo così completo queste qualità di Dio che poté dire: “Chi ha visto me ha visto anche il Padre” (Gv 14:9). Gesù fu lo strumento di Dio per estendere l’immeritata bontà e la verità a chiunque le avrebbe accolte favorevolmente.

Colui che viene dopo di me Giovanni Battista nacque circa sei mesi prima di Gesù e iniziò il suo ministero prima di lui. In questo senso Gesù venne “dopo”, o dietro, Giovanni (Lu 1:24, 26; 3:1-20). Comunque, Gesù ha compiuto opere ben più grandi di Giovanni; in questo senso è andato davanti a Giovanni, o lo ha superato, in ogni aspetto. Inoltre, con le parole esisteva prima di me, Giovanni Battista riconobbe l’esistenza preumana di Gesù.

immeritata bontà su immeritata bontà Il termine greco reso “immeritata bontà” è chàris. In questo contesto indica la grande liberalità di Dio, la sua bontà e il suo immenso amore. Si tratta di qualcosa di non guadagnato e non meritato, motivato unicamente dalla generosità del donatore. (Vedi Glossario, “immeritata bontà”.) L’espressione originale, che contiene due occorrenze della parola chàris unite dalla preposizione antì (qui resa “su”), denota un flusso generoso, continuo o incessante di immeritata bontà. Questo concetto potrebbe anche essere trasmesso con l’espressione “costante [o “continua”] immeritata bontà”.

dono O “dono immeritato”, “dono benevolo”. Il sostantivo greco usato qui per “dono”, chàrisma, indica fondamentalmente un dono gratuito, qualcosa che non si guadagna o non si merita. È affine al termine chàris, spesso tradotto “immeritata bontà”. (Vedi Glossario, “immeritata bontà”.) La bontà di Geova nel provvedere suo Figlio come sacrificio di riscatto è un dono inestimabile, e coloro che esercitano fede nel sacrificio di Gesù possono così ottenere il dono della vita eterna (Gv 3:16; vedi Ro 5:15, 16, dove in greco compare due volte il termine chàrisma).

in lui abbondavano favore divino e verità “La Parola”, Gesù Cristo, godeva del favore di Dio e diceva sempre la verità. Ma il contesto indica che questa espressione implica molto di più; Geova scelse proprio suo Figlio perché spiegasse e dimostrasse appieno cosa fossero la Sua immeritata bontà e la verità (Gv 1:16, 17). Gesù manifestò in modo così completo queste qualità di Dio che poté dire: “Chi ha visto me ha visto anche il Padre” (Gv 14:9). Gesù fu lo strumento di Dio per estendere l’immeritata bontà e la verità a chiunque le avrebbe accolte favorevolmente.

la Legge [...] l’immeritata bontà e la verità Nelle Scritture Greche Cristiane, la Legge data tramite Mosè è spesso messa in contrasto con l’“immeritata bontà” (Ro 3:21-24; 5:20, 21; 6:14; Gal 2:21; 5:4; Eb 10:28, 29). La Legge mosaica doveva servire da “tutore per condurci a Cristo” e conteneva ombre, o quadri profetici, che si erano adempiute in lui (Gal 3:23-25; Col 2:16, 17; Eb 10:1). Tra le altre cose, la Legge aveva dato agli uomini “la piena consapevolezza del peccato” (Ro 3:20). Da questo derivava anche la consapevolezza che “il salario del peccato è la morte” e che “ogni trasgressione e disubbidienza è stata punita secondo giustizia” (Ro 6:23; Eb 2:2). Qui Giovanni intende mettere in contrasto “la Legge” con “l’immeritata bontà e la verità” che sono venute per mezzo di Gesù Cristo. Gesù rese concrete le cose prefigurate dalla Legge, inclusi i sacrifici per il perdono e l’espiazione (Le 4:20, 26). Inoltre rivelò che Dio avrebbe concesso a esseri umani peccatori la Sua “immeritata bontà” (o “generoso dono”, com’è a volte tradotto il termine greco chàris) dando suo Figlio come sacrificio di espiazione (Col 1:14; 1Gv 4:10, nt.; vedi approfondimento a Ro 6:23 e Glossario, “immeritata bontà”). Gesù rivelò una nuova “verità”: questo sacrificio avrebbe liberato gli esseri umani dal peccato e dalla morte (Gv 8:32; vedi approfondimento a Gv 1:14).

la Parola era un dio O “la Parola era divina [o “simile a un dio”]”. Nel menzionare “la Parola” (in greco ho lògos; vedi l’approfondimento la Parola in questo versetto), Giovanni ne descrive la qualità o la natura. Un motivo per cui Gesù Cristo, cioè la Parola, può essere definito “un dio”, “simile a un dio” o “un essere divino” è la posizione di preminenza che ha in quanto Figlio primogenito di Dio, colui tramite il quale Dio creò tutte le altre cose. Molti traduttori preferiscono la resa “la Parola era Dio”, identificando “la Parola” con l’Iddio Onnipotente. Ad ogni modo, ci sono valide ragioni per ritenere che Giovanni non intendeva dire che “la Parola” fosse l’Iddio Onnipotente. Innanzitutto, sia la frase che precede sia quella che segue dicono chiaramente che “la Parola” era “con Dio”. Inoltre, anche se nei vv. 1-2 la parola greca theòs ricorre tre volte, la prima e la terza volta compare con l’articolo determinativo, mentre la seconda volta è senza articolo. Molti studiosi concordano nel dire che l’assenza dell’articolo determinativo nella seconda occorrenza ha una sua valenza. In questo contesto, quando la parola theòs ha l’articolo si riferisce all’Iddio Onnipotente; quando invece non ha l’articolo, con questa costruzione grammaticale assume un valore qualitativo, nel senso che descrive una caratteristica della Parola. Per tale motivo, varie versioni bibliche in inglese, francese e tedesco traducono il testo in modo simile alla Traduzione del Nuovo Mondo, trasmettendo l’idea che “la Parola” era “un dio”, “divina”, “di natura divina”, “simile a un dio” o “un essere divino”. (A sostegno di questo, antiche traduzioni del Vangelo di Giovanni nei dialetti copto sahidico e copto bohairico, realizzate probabilmente tra il III e il IV secolo, traducono la prima occorrenza di theòs in Gv 1:1 in modo diverso rispetto alla seconda occorrenza.) Queste rese sottolineano una qualità della Parola; indicano che la sua natura era come quella di Dio, ma non indicano una perfetta corrispondenza tra lui e suo Padre, l’Iddio Onnipotente. In armonia con questo versetto, Col 2:9 descrive Cristo dicendo che in lui risiede “tutta la pienezza dell’essenza divina”. E, stando a 2Pt 1:4, anche coloro che sono eredi con Cristo diventano “partecipi della natura divina”. In più, nella Settanta la parola greca theòs è il consueto traducente dei termini ebraici resi “Dio”, ʼel ed ʼelohìm, che si ritiene significhino fondamentalmente “uno potente”, “uno forte”. Queste parole ebraiche sono usate in riferimento sia all’Iddio Onnipotente che ad altri dèi e a esseri umani. (Vedi approfondimento a Gv 10:34.) Descrivere la Parola come “un dio”, o “un potente”, sembra coerente anche con la profezia di Isa 9:6, dove si legge che il Messia sarebbe stato chiamato “Dio potente” (non “Dio Onnipotente”) e che sarebbe stato il “Padre eterno” di tutti quelli che avrebbero avuto il privilegio di essere suoi sudditi. Ma sarebbe stato lo zelo di suo Padre, “Geova degli eserciti”, a realizzare tutto questo (Isa 9:7).

dèi O “simili a dèi”. Qui Gesù cita Sl 82:6, dove il termine ebraico ʼelohìm (“dèi”) si riferisce a uomini, giudici d’Israele. Quegli uomini erano “dèi” in quanto rappresentanti e portavoce di Dio. Mosè ricevette un incarico simile quando gli fu detto che doveva agire “in veste di Dio” per Aronne e per il faraone (Eso 4:16; nt.; 7:1; nt.).

l’unigenito dio Qui Giovanni si sta riferendo alla Parola, “Gesù Cristo”, che in precedenza aveva definito “un dio” (Gv 1:1, 17). Giovanni parla di Gesù come dell’unigenito Figlio di Dio (Gv 1:14; 3:16). In questo versetto invece lo chiama “l’unigenito dio”, termine che sottolinea la posizione unica che Gesù ha nell’ordinamento stabilito da Dio. Se si tiene conto del modo in cui nella Bibbia è usata la parola “dio”, Gesù può appropriatamente essere definito “un dio”. Questo titolo è usato fondamentalmente in riferimento a qualcuno potente e nelle Scritture è usato anche in relazione a esseri umani (Sl 82:6; vedi approfondimenti a Gv 1:1; 10:34). Gesù è “un dio”, un essere potente, dato che ha ricevuto potere e autorità da suo Padre, l’Iddio Onnipotente (Mt 28:18; 1Co 8:6; Eb 1:2). Dal momento che è stato l’unico a essere creato direttamente da Dio ed è l’unico tramite il quale tutte le cose “vennero all’esistenza” (Gv 1:3), Gesù viene appropriatamente definito “l’unigenito dio”. Questa espressione mostra che Gesù ha una posizione unica di gloria e preminenza fra tutti gli altri figli spirituali di Dio. Alcuni manoscritti riportano la lezione “l’unigenito Figlio”, espressione adottata in alcune traduzioni della Bibbia. Comunque, i manoscritti più antichi e autorevoli riportano l’espressione “l’unigenito dio” (in greco con l’articolo determinativo) o “unigenito dio” (in greco senza l’articolo determinativo).

accanto al Padre O “appoggiato al petto del Padre”. Lett. “nel seno del Padre”. Questa espressione si riferisce a una posizione di speciale favore e vicinanza intima. Si tratta di una metafora probabilmente derivata dal modo consueto in cui si consumavano i pasti: i commensali si sdraiavano in una posizione tale che avrebbe permesso loro di appoggiarsi all’indietro sul petto di un amico stretto (Gv 13:23-25). Gesù è dunque descritto come l’amico più stretto di Geova Dio, come colui che poteva farlo conoscere in modo più pieno e completo di chiunque altro (Mt 11:27).

la testimonianza che Giovanni rese In Gv 1:7, Giovanni Battista viene definito “testimone” (che traduce lo stesso termine greco usato qui, martyrìa), colui che venne per rendere testimonianza riguardo alla luce. Qui in Gv 1:19 martyrìa si riferisce alla dichiarazione, o attestazione, di Giovanni riguardo a Gesù riportata nei versetti che seguono.

Elia Da un nome ebraico che significa “il mio Dio è Geova”.

Elia Vedi approfondimento a Mt 11:14.

il Profeta Cioè il profeta predetto da Mosè e da lungo tempo atteso (De 18:18, 19; Gv 1:25-27; 6:14; 7:40; At 3:19-26).

Geova Nell’originale ebraico di Isa 40:3, qui citato, compare il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH). (Vedi App. A5 e C.) Gli evangelisti Matteo, Marco e Luca applicano questa profezia a Giovanni Battista, e qui Giovanni Battista la applica a sé stesso. Giovanni avrebbe reso diritta la via di Geova in qualità di precursore di Gesù, il quale sarebbe stato il rappresentante di suo Padre e sarebbe venuto nel Suo nome (Gv 5:43; 8:29).

battezzo O “immergo”. Il verbo greco (baptìzo) significa “immergere”, “tuffare”. Altri riferimenti biblici indicano che il battesimo implicava un’immersione completa. Si legge ad esempio che in un’occasione Giovanni battezzava in una località vicino a Salim, nella valle del Giordano, “perché c’era molta acqua” (Gv 3:23); inoltre, quando Filippo battezzò l’eunuco etiope, entrambi “scesero nell’acqua” (At 8:38). La Settanta usa lo stesso verbo greco quando dice che Naaman “si immerse sette volte nel Giordano” (2Re 5:14).

sandali Slacciare o togliere i sandali a qualcuno oppure portarglieli (Mt 3:11; Mr 1:7; Lu 3:16) era considerato un lavoro umile da far svolgere agli schiavi.

Betania Invece di “Betania”, alcuni manoscritti riportano “Betabara”, e alcune traduzioni bibliche hanno scelto quest’ultima lezione. Comunque, nei manoscritti più autorevoli compare “Betania”.

Betania al di là del Giordano Cioè a E del Giordano. Questa Betania, menzionata solo una volta nelle Scritture Greche Cristiane, non è quella situata nei pressi di Gerusalemme (Mt 21:17; Mr 11:1; Lu 19:29; Gv 11:1). Non si conosce l’ubicazione della Betania a E del Giordano. Alcuni propendono per il luogo in cui secondo la tradizione Gesù si battezzò, dall’altro lato del Giordano, di fronte a Gerico. Comunque, i riferimenti di Gv 1:29, 35, 43; 2:1 sembrano indicare un luogo più vicino a Cana di Galilea invece che a Gerico. Quindi pare più probabile che si tratti di una località a S del Mar di Galilea, ma non è possibile identificarla con certezza. (Vedi App. B10.)

l’Agnello di Dio Dopo che Gesù era stato battezzato ed era stato tentato dal Diavolo, Giovanni Battista vedendolo lo definì “l’Agnello di Dio”. Questa espressione ricorre solo qui e in Gv 1:36. (Vedi App. A7.) Il paragone tra Gesù e un agnello è calzante. Nella Bibbia si parla spesso di pecore offerte in segno di ammissione del peccato e per avvicinarsi a Dio. Questo uso prefigurava il sacrificio che Gesù avrebbe fatto offrendo la sua vita umana perfetta in favore dell’umanità. È possibile che l’espressione “Agnello di Dio” richiamasse alla mente numerosi passi delle Scritture ispirate. Tenendo conto della familiarità che Giovanni Battista aveva con le Scritture Ebraiche, le sue parole potevano alludere a una o più di queste immagini: il montone che Abraamo offrì al posto di suo figlio Isacco (Gen 22:13), l’agnello pasquale che fu scannato in Egitto per la salvezza degli israeliti in schiavitù (Eso 12:1-13) o l’agnello che veniva offerto ogni mattina e ogni sera sull’altare di Dio a Gerusalemme (Eso 29:38-42). O forse Giovanni aveva in mente anche la profezia di Isaia dove colui che Geova chiama “il mio servitore” è descritto mentre viene “portato come una pecora al macello” (Isa 52:13; 53:5, 7, 11). Scrivendo ai corinti, l’apostolo Paolo si riferì a Gesù chiamandolo “il nostro agnello pasquale” (1Co 5:7). L’apostolo Pietro disse che il sangue di Cristo era “prezioso, come quello di un agnello senza alcun difetto e immacolato” (1Pt 1:19). E nel libro di Rivelazione il glorificato Gesù viene chiamato metaforicamente l’“Agnello” oltre 25 volte. (Per alcuni esempi vedi Ri 5:8; 6:1; 7:9; 12:11; 13:8; 14:1; 15:3; 17:14; 19:7; 21:9; 22:1.)

mondo Nella letteratura greca e ancora di più nella Bibbia la parola greca kòsmos è strettamente legata al genere umano. In questo versetto, come pure in Gv 3:16, kòsmos si riferisce all’intera umanità, che qui è descritta come macchiata dal peccato, il peccato ereditato da Adamo.

come una colomba Le colombe avevano sia una funzione sacra sia un significato simbolico: venivano offerte in sacrificio (Mr 11:15; Gv 2:14-16) ed erano simbolo di innocenza e purezza (Mt 10:16). Noè fece uscire dall’arca una colomba che riportò indietro una foglia d’olivo, il che indicò che le acque del diluvio stavano diminuendo (Gen 8:11) e che era vicino un periodo di riposo, sollievo e pace (Gen 5:29). Pertanto, al battesimo di Gesù, Geova potrebbe aver usato la rappresentazione di una colomba per richiamare l’attenzione sul ruolo di Gesù quale Messia. Lui, il Figlio di Dio puro e innocente, avrebbe sacrificato la sua vita per l’umanità e posto le basi per un periodo di riposo, sollievo e pace durante il suo Regno. Il modo in cui lo spirito santo di Dio, la sua potenza in azione o forza attiva, scese su Gesù al battesimo potrebbe aver ricordato il battito d’ali di una colomba che si avvicina al trespolo.

Adamo, figlio di Dio Questa espressione fa riferimento all’origine dell’umanità e concorda con quanto viene detto in Genesi, dove si legge che il primo uomo fu creato da Dio e a immagine di Dio (Gen 1:26, 27; 2:7). Inoltre fa luce su altre affermazioni ispirate, come quelle riportate in Ro 5:12; 8:20, 21 e 1Co 15:22, 45.

il Figlio di Dio Nella Bibbia questa espressione ricorre spesso in riferimento a Gesù (Gv 1:49; 3:16-18; 5:25; 10:36; 11:4). Ma, visto che Dio non ha una moglie letterale e non è un essere umano, dev’essere intesa in senso figurato. È chiaro che viene usata per aiutare il lettore a capire che il legame tra Gesù e Dio è come quello tra un figlio umano e suo padre. Evidenzia inoltre che Gesù ha ricevuto la vita da Geova, essendo stato creato da lui. In modo simile, anche il primo uomo, Adamo, viene definito “figlio di Dio”. (Vedi approfondimento a Lu 3:38.)

Uno dei due Questi due discepoli sono gli stessi di cui si parla in Gv 1:35. Il discepolo di cui non si menziona il nome è probabilmente l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e scrittore di questo Vangelo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Tale conclusione è sostenuta dal fatto che lo scrittore non si identifica mai per nome, non menziona mai l’apostolo Giovanni per nome e tutte le volte che si riferisce a Giovanni Battista lo chiama semplicemente “Giovanni”.

Giovanni [...] con due suoi discepoli Uno dei due discepoli di Giovanni Battista era “Andrea, fratello di Simon Pietro”. (Vedi approfondimento a Gv 1:40.)

Giovanni [...] con due suoi discepoli Uno dei due discepoli di Giovanni Battista era “Andrea, fratello di Simon Pietro”. (Vedi approfondimento a Gv 1:40.)

Uno dei due Questi due discepoli sono gli stessi di cui si parla in Gv 1:35. Il discepolo di cui non si menziona il nome è probabilmente l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e scrittore di questo Vangelo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Tale conclusione è sostenuta dal fatto che lo scrittore non si identifica mai per nome, non menziona mai l’apostolo Giovanni per nome e tutte le volte che si riferisce a Giovanni Battista lo chiama semplicemente “Giovanni”.

i due discepoli seguirono Gesù Questa affermazione indica che i primi discepoli di Gesù provenivano dal gruppo dei discepoli di Giovanni Battista. (Vedi approfondimenti a Gv 1:35, 40.)

verso la 3a ora Cioè circa le 9 del mattino. Nel I secolo gli ebrei dividevano la giornata in 12 ore, iniziando dall’alba, verso le 6 (Gv 11:9). Quindi la 3ª ora corrispondeva all’incirca alle 9 del mattino, la 6ª all’incirca a mezzogiorno e la 9ª all’incirca alle 3 del pomeriggio. Dal momento che la gente non aveva orologi precisi, le indicazioni temporali di solito erano approssimative (Gv 1:39; 4:6; 19:14; At 10:3, 9).

circa la 10a ora Cioè circa le 4 del pomeriggio. (Vedi approfondimento a Mt 20:3.)

Uno dei due Questi due discepoli sono gli stessi di cui si parla in Gv 1:35. Il discepolo di cui non si menziona il nome è probabilmente l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e scrittore di questo Vangelo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Tale conclusione è sostenuta dal fatto che lo scrittore non si identifica mai per nome, non menziona mai l’apostolo Giovanni per nome e tutte le volte che si riferisce a Giovanni Battista lo chiama semplicemente “Giovanni”.

Cristo Questo titolo deriva dal termine greco Christòs ed equivale a “Messia” (dall’ebraico mashìach); entrambi i titoli significano “Unto”. Nei tempi biblici i governanti venivano cerimonialmente unti con olio.

il Messia O “l’Unto”. La parola greca Messìas (traslitterazione dell’ebraico mashìach) ricorre solo due volte nelle Scritture Greche Cristiane. (Vedi Gv 4:25.) Il verbo ebraico da cui deriva il titolo mashìach è mashàch, che significa “spalmare o cospargere (di un liquido)” e “ungere” (Eso 29:2, 7). Nei tempi biblici sacerdoti, governanti e profeti venivano cerimonialmente unti con olio (Le 4:3; 1Sa 16:3, 12, 13; 1Re 19:16). Qui in Gv 1:41, il titolo “Messia” è seguito da una spiegazione: che, tradotto, significa “Cristo”. Il titolo “Cristo” (in greco Christòs) ricorre più di 500 volte nelle Scritture Greche Cristiane ed equivale a “Messia”; entrambi i titoli significano “Unto”. (Vedi approfondimento a Mt 1:1.)

Simone, chiamato Pietro Il suo nome proprio era Simone. Pètros (reso Pietro) è la forma greca del nome semitico Kehfà (reso Cefa), nome datogli da Gesù (Mr 3:16; Gv 1:42; vedi approfondimento a Mt 10:2).

Simone, quello chiamato Pietro Nelle Scritture Pietro è chiamato in cinque modi diversi: (1) “Simeone”, dalla forma greca Symeòn che rispecchia da vicino quella ebraica dello stesso nome; (2) “Simone”, nome greco (sia Simeone che Simone derivano da un verbo ebraico che significa “udire”, “ascoltare”); (3) “Pietro”, nome greco che significa “frammento di roccia” e che nessun altro ha nelle Scritture; (4) “Cefa”, equivalente semitico di Pietro (forse affine all’ebraico kefìm [“rocce”] usato in Gb 30:6; Ger 4:29); (5) “Simon Pietro” (At 15:14; Gv 1:42; Mt 16:16).

figlio di Giona O “Bar-Giona”. Molti nomi ebraici includevano il termine ebraico ben o l’aramaico bar, cioè “figlio”, seguito dal nome del padre. La presenza del prestito aramaico bar in vari nomi propri, come Bartolomeo, Bartimeo, Barnaba e Bar-Gesù, testimonia l’influenza dell’aramaico sull’ebraico parlato ai giorni di Gesù.

Tu sei Simone Simone è chiamato in cinque modi nelle Scritture. (Vedi approfondimenti a Mt 4:18; 10:2.) In questa occasione, che sembra essere la prima volta in cui i due si incontrano, Gesù dà a Simone il nome semitico Cefa, da Kefàs, forse affine all’ebraico kefìm (“rocce”) usato in Gb 30:6 e Ger 4:29. Qui l’evangelista Giovanni aggiunge che si traduce “Pietro”, nome d’origine greca dal significato simile (“frammento di roccia”). Nelle Scritture questo nome semitico e questo nome greco vengono usati solo per Simone. Gesù, che fu in grado di discernere che Natanaele era un uomo ‘in cui non c’era inganno’ (Gv 1:47; 2:25), poté discernere anche la personalità di Pietro. Specie dopo la morte e risurrezione di Gesù, Pietro manifestò qualità simili a quelle della roccia, rafforzando la congregazione e dandole stabilità (Lu 22:32; At 1:15, 16; 15:6-11).

Giovanni Qui dove si menziona il padre dell’apostolo Pietro, alcuni manoscritti antichi riportano il nome Giovanni, mentre altri il nome Giona. In Mt 16:17 si legge che Gesù, rivolgendosi a Pietro, lo chiamò “Simone figlio di Giona”. (Vedi approfondimento a Mt 16:17.) Secondo alcuni studiosi, le forme greche dei nomi Giovanni e Giona potrebbero essere grafie diverse dello stesso nome ebraico.

Natanaele Da un nome ebraico che significa “Dio ha dato”. Presumibilmente un altro nome di Bartolomeo, uno dei 12 apostoli di Gesù (Mt 10:3). Bartolomeo, che significa “figlio di Tolmai”, è un patronimico (nome derivato da quello del padre). Non è strano che Natanaele sia chiamato Bartolomeo, o “figlio di Tolmai”; a riprova di questo, in un altro caso viene menzionato un uomo chiamato semplicemente Bartimeo, cioè “figlio di Timeo” (Mr 10:46). Quando Matteo, Marco e Luca parlano di Bartolomeo, accostano il suo nome a quello di Filippo. E quando Giovanni menziona Natanaele, anche lui lo descrive insieme a Filippo, fornendo un’ulteriore prova del fatto che Bartolomeo e Natanaele erano la stessa persona (Mt 10:3; Mr 3:18; Lu 6:14; Gv 1:45, 46). A quel tempo non era insolito essere conosciuti con più nomi (Gv 1:42).

Mosè, nella Legge, e i Profeti Queste parole ricordano l’espressione “la Legge e i Profeti”, che, con leggere variazioni, viene usata più volte nei Vangeli (Mt 5:17; 7:12; 11:13; 22:40; Lu 16:16). Qui con “Legge” ci si riferisce ai libri biblici da Genesi a Deuteronomio, mentre con “Profeti” ai libri profetici delle Scritture Ebraiche. Comunque, quando sono menzionati insieme, i termini possono riferirsi alle intere Scritture Ebraiche. Ovviamente quei discepoli erano attenti studiosi delle Scritture Ebraiche, e Filippo poteva avere in mente brani come quelli che si trovano in Gen 3:15; 22:18; 49:10; De 18:18; Isa 9:6, 7; 11:1; Ger 33:15; Ez 34:23; Mic 5:2; Zac 6:12 e Mal 3:1. In effetti sono vari i versetti biblici che indicano che le intere Scritture Ebraiche rendono testimonianza riguardo a Gesù (Lu 24:27, 44; Gv 5:39, 40; At 10:43; Ri 19:10).

Può venire qualcosa di buono da Nazaret? Per molti queste parole di Natanaele sono la prova che Nazaret era un villaggio insignificante, disprezzato persino dagli abitanti della stessa Galilea (Gv 21:2). Nazaret non è espressamente menzionata nelle Scritture Ebraiche e nemmeno da Giuseppe Flavio, anche se la vicina Iafia (meno di 3 km a SO di Nazaret) viene menzionata in Gsè 19:12 e da Giuseppe Flavio. Ma non tutte le città della Galilea sono citate nelle Scritture Ebraiche o da Giuseppe Flavio. È anche degno di nota che i Vangeli definiscano sempre Nazaret una “città” (in greco pòlis), termine che generalmente denota un centro abitato più esteso di un villaggio (Mt 2:23; Lu 1:26; 2:4, 39; 4:29). Nazaret sorgeva su un altopiano circondato da colline che sovrastavano la pianura di Esdrelon (Izreel). La zona era molto popolata; nelle vicinanze si trovavano vari villaggi e città. Era vicina a importanti vie carovaniere, quindi gli abitanti avevano la possibilità di ricevere informazioni sulle attività sociali, religiose e politiche del tempo. (Confronta Lu 4:23.) Nazaret aveva anche la sua sinagoga (Lu 4:16). Sembra perciò improbabile che fosse un villaggio insignificante. Quindi Natanaele forse stava semplicemente esprimendo la sua sorpresa per il fatto che Filippo credesse che il Messia promesso fosse un uomo della vicina città di Nazaret in Galilea, dato che nelle Scritture era stato predetto che sarebbe venuto da Betlemme di Giuda (Mic 5:2; Gv 7:42, 52).

davvero un israelita in cui non c’è inganno Tutti i discendenti di Giacobbe erano israeliti, ma Gesù si stava senza dubbio riferendo a qualcosa di più rispetto alla discendenza genealogica. Il nome Israele significa “colui che contende (persevera) con Dio” e fu dato a Giacobbe dopo che ebbe lottato con un angelo per ottenere una benedizione. Al contrario di suo fratello Esaù, Giacobbe apprezzava le cose sacre ed era disposto a fare ogni sforzo per ricevere il favore di Dio (Gen 32:22-28; Eb 12:16). Con le sue parole, Gesù indicò che Natanaele era israelita non solo perché lo era di nascita ma perché dimostrava la stessa fede e la stessa dedizione al volere di Dio che aveva avuto il suo antenato Giacobbe. L’affermazione di Gesù (che potrebbe richiamare Sl 32:2) indica anche che in Natanaele non c’era nulla di ipocrita o insincero.

Vedrai cose più grandi di queste Natanaele iniziò presto a vedere l’adempimento di queste parole. Durante una festa di nozze tenutasi a Cana di Galilea, sua città d’origine, assisté al primo miracolo di Gesù, la trasformazione dell’acqua in ottimo vino (Gv 2:1-11; 21:2). Insieme agli altri 11 che in seguito vennero scelti come apostoli, vide Gesù guarire malati, espellere demòni e persino risuscitare morti. Oltre a essere testimoni di queste cose, Natanaele e gli altri apostoli ricevettero essi stessi l’autorità di compiere miracoli e di proclamare: “Il Regno dei cieli si è avvicinato” (Mt 10:1-8).

Figlio dell’uomo O “Figlio di un essere umano”. Questa espressione ricorre un’ottantina di volte nei Vangeli. Gesù la usò in riferimento a sé stesso. Evidentemente voleva sottolineare il fatto che era davvero un essere umano, nato da una donna, e che era il giusto equivalente di Adamo, nella condizione quindi di riscattare l’umanità dal peccato e dalla morte (Ro 5:12, 14, 15). L’espressione indicava inoltre che Gesù era il Messia, o il Cristo (Da 7:13, 14; vedi Glossario).

In verità, sì, in verità In greco amèn amèn. Il termine greco è la traslitterazione dell’ebraico ʼamèn, che significa “così sia” o “di sicuro”. Gesù usa spesso il termine per introdurre un’affermazione, una promessa o una profezia, sottolineandone così la veracità e l’attendibilità. Pare che questo uso di “in verità” (o amen) da parte di Gesù sia unico nella letteratura sacra (Mt 5:18; Mr 3:28; Lu 4:24). Solo il Vangelo di Giovanni ripete il termine in successione (amèn amèn), e lo fa in tutt’e 25 le occorrenze. In questa traduzione amèn amèn è reso “in verità, sì, in verità”; rese alternative potrebbero essere “verissimamente” o “con assoluta certezza”. L’intera espressione “in verità vi dico”, o “in verità, sì, in verità vi dico”, potrebbe anche essere resa “vi garantisco” o “vi dico la verità”.

cielo Il termine greco qui usato può riferirsi sia al cielo letterale sia ai cieli spirituali.

angeli O “messaggeri”. Il termine greco àggelos e il corrispondente ebraico malʼàkh ricorrono quasi 400 volte nella Bibbia. Entrambi i termini significano fondamentalmente “messaggero”. Quando indicano un messaggero spirituale, vengono tradotti “angelo”, ma se si riferiscono a una creatura umana, vengono tradotti “messaggero”. Di solito il contesto rende chiaro se si tratta di messaggeri umani o angelici; quando sono possibili entrambi i significati, le note in calce spesso riportano la resa alternativa (Gen 16:7; 32:3; Gb 4:18, nt.; 33:23, nt.; Ec 5:6, nt.; Isa 63:9, nt.; Mt 1:20; Gc 2:25; Ri 22:8; vedi Glossario). In Rivelazione, libro altamente simbolico, alcuni riferimenti ad angeli potrebbero applicarsi a esseri umani (Ri 2:1, 8, 12, 18; 3:1, 7, 14).

dal Figlio dell’uomo O “al servizio del Figlio dell’uomo”. Può darsi che, quando parlò di angeli descritti nell’azione di salire e scendere, Gesù avesse in mente la visione in cui Giacobbe vide angeli che salivano e scendevano una scalinata, o scala (Gen 28:12), immagine che suggerisce l’importante ruolo svolto dagli angeli tra Geova e gli uomini che hanno la sua approvazione. In modo simile, l’affermazione di Gesù dimostra che coloro che stavano con lui avevano prove del fatto che gli angeli di Dio lo servivano e che in modo speciale godeva della cura e della guida del Padre.

Figlio dell’uomo Vedi approfondimento a Mt 8:20.

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Introduzione video al libro di Giovanni
Introduzione video al libro di Giovanni
Traduzione in copto sahidico di Giovanni 1:1
Traduzione in copto sahidico di Giovanni 1:1

Questo manoscritto (datato intorno al 600) contiene una traduzione del Vangelo di Giovanni in sahidico, un dialetto copto. Il copto era parlato in Egitto nei secoli immediatamente successivi al ministero terreno di Gesù. Insieme al siriaco e al latino, fu una delle prime lingue in cui vennero tradotte le Scritture Greche Cristiane. Già nel III secolo esistevano traduzioni in copto, che permettono di fare chiarezza sul modo in cui veniva inteso il testo greco a quel tempo. Questo potrebbe essere particolarmente interessante in relazione a un punto molto discusso come l’ultima parte di Gv 1:1, che in molte traduzioni è resa: “La Parola era con Dio, e la Parola era Dio”. A differenza della koinè, del siriaco e del latino, il dialetto copto sahidico ha l’articolo indeterminativo (che corrisponde sotto alcuni aspetti agli articoli indeterminativi italiani “un”, “uno”, “una”). Come mostrato qui, le due occorrenze della parola copta per “Dio” (evidenziate nell’immagine) sono leggermente diverse: la prima (1) contiene l’articolo determinativo (cerchiato di rosso) e la seconda (2) contiene l’articolo indeterminativo (cerchiato di rosso). La traduzione letterale in italiano sarebbe quindi: “La Parola era con il Dio, e la Parola era un dio”. (Per ulteriori dettagli sulla resa “la Parola era un dio”, vedi approfondimento a Gv 1:1.)

1. “il” (cerchiato di rosso) Dio

2. “un” (cerchiato di rosso) dio

Antico manoscritto del Vangelo di Giovanni
Antico manoscritto del Vangelo di Giovanni

Questa è la prima pagina del papiro Bodmer II (P66), un antico manoscritto biblico copiato e rilegato in forma di codice nel 200 circa. Il manoscritto contiene gran parte del testo greco del Vangelo secondo Giovanni. La prima pagina di questo manoscritto inizia con l’intestazione (evidenziata nell’immagine) Euaggèlion katà Ioànnen (“Buona notizia [o “Vangelo”] secondo Giovanni”). A quanto pare le intestazioni non facevano parte del testo originale, ma furono aggiunte successivamente dai copisti. Queste intestazioni contenenti il nome dello scrittore potrebbero essere state introdotte per motivi di praticità; permettevano infatti di identificare con facilità i libri.

Vangelo di Giovanni | Alcuni degli avvenimenti principali
Vangelo di Giovanni | Alcuni degli avvenimenti principali

Dove possibile, gli avvenimenti sono stati elencati in ordine cronologico

Tutti i Vangeli sono corredati dalla stessa cartina, ma gli avvenimenti riportati sono diversi

1. Vicino a Betania al di là del Giordano, Giovanni chiama Gesù “l’Agnello di Dio” (Gv 1:29).

2. A Cana di Galilea, Gesù compie il suo primo miracolo (Gv 2:3, 7-9, 11).

3. Gesù purifica il tempio una prima volta (Gv 2:13-15).

4. Gesù va nelle campagne della Giudea; i suoi discepoli battezzano; Giovanni battezza a Enon (Gv 3:22, 23).

5. Presso il pozzo di Giacobbe a Sichar, Gesù parla con una samaritana (Gv 4:4-7, 14, 19, 20).

6. Gesù guarisce a distanza il figlio di un funzionario; questo è il suo secondo miracolo a Cana di Galilea (Gv 4:46, 47, 50-54).

7. Gesù guarisce un malato presso la piscina di Betzata, a Gerusalemme (Gv 5:2-5, 8, 9).

8. Riva nord-orientale del Mar di Galilea; dopo che Gesù ha sfamato miracolosamente circa 5.000 uomini, la folla cerca di farlo re (Mt 14:19-21; Gv 6:10, 14, 15).

9. In una sinagoga a Capernaum, Gesù dice di essere “il pane della vita”; molti si scandalizzano per le sue parole (Gv 6:48, 54, 59, 66).

10. Presso la piscina di Siloam, Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita (Gv 9:1-3, 6, 7).

11. Nel tempio, sotto il portico di Salomone, i giudei cercano di lapidare Gesù (Gv 10:22, 23, 31).

12. I giudei cercano di prendere Gesù, ma lui va nel luogo in cui Giovanni aveva battezzato; molti che si trovano dall’altra parte del Giordano ripongono fede in Gesù (Gv 10:39-42).

13. Gesù risuscita Lazzaro a Betania (Gv 11:38, 39, 43, 44).

14. Quando a Gerusalemme i giudei cospirano per ucciderlo, Gesù va a Efraim, una città nella regione vicina al deserto (Gv 11:53, 54).

15. Lungo la strada che viene da Betfage, Gesù cavalca un asino e fa un ingresso trionfale a Gerusalemme (Mt 21:1, 7-10; Mr 11:1, 7-11; Lu 19:29, 30, 35, 37, 38; Gv 12:12-15).

16. Gesù attraversa la Valle del Chidron e va nel giardino di Getsemani con i suoi discepoli (Mt 26:30; Mr 14:26; Lu 22:39; Gv 18:1).

17. Nel giardino di Getsemani, Giuda tradisce Gesù e Gesù viene arrestato (Mt 26:47-50; Mr 14:43-46; Lu 22:47, 48, 54; Gv 18:2, 3, 12).

18. Gesù viene flagellato e deriso nel palazzo del governatore (Mt 27:26-29; Mr 15:15-20; Gv 19:1-3).

19. Gesù viene messo al palo sul Golgota (Mt 27:33-36; Mr 15:22-25; Lu 23:33; Gv 19:17, 18).

20. Gesù, risorto, appare a Maria Maddalena nel giardino vicino alla tomba (Mt 28:1, 5, 6, 8, 9; Gv 20:11, 12, 15-17).

21. Sulla riva del Mar di Galilea, Gesù appare ai discepoli; Pietro conferma il suo affetto per Gesù (Gv 21:12-15).

Veduta della Valle di Izreel
Veduta della Valle di Izreel

La foto mostra la veduta che si gode, guardando verso sud, da un’altura nelle vicinanze di Nazaret. Qui si può vedere la fertile Valle di Izreel, scenario di diversi avvenimenti biblici, nella sua estensione da est a ovest (Gsè 17:16; Gdc 6:33; Os 1:5). A sinistra, in lontananza, si distingue chiaramente il colle di More, sulle cui pendici sorge la città di Nain. Fu in questa città che Gesù risuscitò il figlio di una vedova (Gdc 7:1; Lu 7:11-15). Al centro, si profila all’orizzonte il monte Ghilboa (1Sa 31:1, 8). Dato che crebbe a Nazaret, città poco distante da questa altura, è possibile che Gesù sia venuto in questo punto che sovrasta luoghi importanti della storia di Israele (Lu 2:39, 40).